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Novità in libreria: I dannati non muoiono di Jim Nisbet e Omicidio allo specchio di Ryan David Jahn

In un periodo in cui il noir non se la passa mica troppo bene, le buone uscite sono ormai perle rare, acuti in una sinfonia caleidoscopica di scoregge e rutti in cui il mercato editoriale di genere sembra voglia sprofondare noi poveri lettori. E se, allora, Revolver ci permette di respirare aria fresca, quella che dalle mie parti, in Ossola, si assapora salendo di quattro passi, TimeCrime risponde subito con due lavori frutto dell’impegno di due autori da me amatissimi. Se I dannati non muoiono è tutt’altro che una novità, rappresentando l’esordio letterario di quel geniaccio di Jim Nisbet – su Pegasus Descending ne ho parlato a più riprese. Nell’ordine: le recensioni di Iniezione letale, capolavoro assoluto, e Cattive abitudini; approfondita intervista; reportage dal Salone del Libro di Torino. Ripassatevi i pezzi e, se ne avete voglia, ne riparliamo -, seppur con un nuovo finale, e già recensito da Vitandrea Silecchia sempre per il vostro blog preferito, Omicidio allo specchio di Ryan David Jahn segna il ritorno dell’autore rivelazione del 2011 con il magnifico I buoni vicini, romanzo profondo, intelligente, denso di significati e letture nonché rappresentazione ideale di quello che dovrebbe essere la letteratura, un leggio per l’anima umana e la società. Ma anche di questo lavoro, che consiglio caldamente di procurarsi, trovate recensione pubblicata da queste parti e intervista all’autore.

Ho sbraitato per mesi sulla mancata pubblicazione di nuovi lavori di Nisbet, bestemmiando anche contro quel socio di Vitandrea che era riuscito a recuperare una vecchia copia de I dannati in una bancarella dell’usato. Lo stesso Sergio Fanucci era intervenuto proprio in calce alla recensione di questo lavoro dello scrittore di San Francisco promettendo che avremmo letto tutti gli autori da me invocati e, almeno per il momento, banditi dalle libreria italiane, includendo nella protesta, oltre al già citato Nisbet, anche quelle vette della letteratura raggiunte da gente come James Lee Burke e Dave Zeltserman. Certo, non nego che spero di poter leggere anche gli ultimi lavori di Jim, comunque il ritorno sugli scaffali impolverati di Mondadori e Feltrinelli – e della libreria Azuni del mio amico Emiliano Longobardi. Cazzo, sosteniamo gli indipendenti, a cui se chiedete un consiglio sanno pure rispondervi invece di sbuffarvi in faccia, annoiati e con un dito nel naso, come i commessi precari dei grandi magazzini – il ritorno, dicevamo, di un romanzo fuori catalogo da anni e a soli 7,70, beh, a me fa tirare un’altra bella boccata d’aria fresca della Val Formazza. Teniamo duro, ragazzi, teniamo duro!

I dannati non muoiono

I DANNATI NON MUOIONO
di Jim Nisbet
ed. TimeCrime
Traduzione di Bruna Ferri

TRAMA: Strano il caso capitato al detective privato Martin Windrow, casualmente coinvolto nelle indagini relative al suicidio di Virginia Sarapath: la notte in cui è stata uccisa, un vicino ha sentito provenire dal suo appartamento dei forti gemiti di piacere. Al di là della parete, evidentemente, la donna era impegnata in un amplesso, a quanto pare durato per ore. Eppure il giorno successivo di Virginia resta solo il cadavere, i polsi recisi a colpi di rasoio, il seno sinistro asportato di netto. Sul foglio inserito nella macchina da scrivere di Herbert Trimble, che abita nell’appartamento accanto a quello della vittima, il detective trova intanto un foglio di carta che reca un’inquietante scritta: “Ho sempre voluto scuoiare una donna.” Forse, sono le semplici farneticazioni di uno scrittore fallito; forse, è la traccia di un movente. Inizia così un gorgo di orrori nel quale Windrow verrà  attratto come una falena dalla luce, fino a sprofondare in un delirio in cui i confini tra omicidio e amore diventano sempre più labili.

Omicidio allo specchio

OMICIDIO ALLO SPECCHIO
di Ryan David Jahn
ed. TimeCrime
Traduzione di Cristina Genovese

TRAMA: Quando Simon Johnson viene aggredito all’interno del suo squallido appartamento di Los Angeles, la scelta è una e una soltanto: difendersi o morire. Ma nel momento stesso in cui, dopo averlo colpito, il fascio di luce della torcia illumina il viso del suo aggressore, Simon realizza due cose: primo, di averlo fatto fuori; secondo, che l’uomo che giace ai suoi piedi gli assomiglia come una goccia d’acqua. inizia così a prendere forma nella sua mente un piano diabolico: per scoprire il motivo del suo tentato omicidio, Johnson assumerà l’identità del suo “doppio”, un professore di matematica che conduceva la più ordinaria delle esistenze e che ora è un cadavere immerso in acqua e ghiaccio nella sua vasca da bagno. Così facendo Simon vivrà in casa sua, dormirà con sua moglie, vestirà i suoi abiti e si divertirà con la sua giovane amante… Ma a un certo punto il ghiaccio comincia a sciogliersi, strani messaggi appaiono sui muri, una misteriosa Cadillac nera inizia a pedinare Simon e qualcuno è sulle sue tracce. Realtà e allucinazione iniziano a confondersi, disegnando la geometria di un labirinto in cui il protagonista si perde: chi ha scoperto il suo gioco? C‘è forse qualcuno che muove le fila e che sta tentando di farlo impazzire?

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I dannati non muoiono – Jim Nisbet

I dannati non muoiono

Nella scorribanda scopareccia in quel di Torino durante il Salone del Libro, l’inviato speciale di Pegasus Descending, Vitandrea Silecchia, ha pure trovato il tempo, tra un broccolata a qualche lettrice di Sepulveda e l’altra, di fare un salto negli stand da veri uomini e tirare su nel mercati dell’usato nientepopodimenoche I dannati non muoiono, romanzi d’esordio di Jim Nisbet, uno degli scrittori maggiormente apprezzati da queste parti. Godetevi la seguente recensione – in bianco e nero, per essere sinceri – visto che di Nisbet, a meno di non padroneggiare più che egregiamente l’inglese, per qualche altro lustro temo non si sentirà più parlare nel paese di Melissa P. Buonanotte!  

I DANNATI NON MUOIONO (The Damned don’t Die)
di Jim Nisbet
ed. Fabbri
Traduzione di Bruna Ferri

di Vitandrea Silecchia

A qualcuno sarà capitato di ascoltare una coppia che sta facendo l’amore, dall’altra parte del muro, nell’appartamento a fianco del vostro. Sta capitando a Herbert Trimble, scrittore di racconti da due soldi, violoncellista, e con questo incipit sul foglio nella macchina da scrivere: “Ho sempre desiderato scuoiare una donna.” All’irritazione perché il divertimento sta tutto al di là del muro e non nella sua stanza, subentra l’ispirazione per il racconto il cui incipit è già bello pronto. Unico problema: il giorno dopo la ragazza della porta accanto è morta, forse assassinata, forse suicida. Di Trimble e dello stallone, nessuna traccia.

A osservare un appartamento vuoto da una parte e uno con un cadavere nell’altro è Martin Widrow, investigatore privato, per l’occasione incaricato di consegnare i documenti del divorzio a Trimble. E’ l’inizio delle indagini per Widrow, nel sottobosco della San Francisco degli amanti del sesso alla famolo strano.

I dannati non muoiono (The damned don’t lie) è il primo romanzo di Jim Nisbet, pubblicato nel 1981. In Italia lo si può trovare solo al mercato dell’usato, in edizione Bompiani o Fabbri (in questa edizione fa parte della collana La biblioteca del brivido, anno 1994). A conti fatti, non è un libro memorabile, e i tre disponibili per Fanucci (Prima di un urlo, Iniezione letale e Cattive abitudini) sono tutti molto meglio.

L’incipit, abbiamo visto, è ottimo. Proietta subito il lettore nel vivo della storia, prima dal punto di vista di Trimble, neanche tre pagine dopo da quello di Widrow: e questo sarà tenuto saldamente fino alla fine della storia. L’investigazione di Widrow comincia altrettanto bene, le situazioni non sono scontate, e Nisbet tiene vivo l’interesse svelando a poco a poco i misteri che legano lo scrittore, sua moglie, il suo editore, la donna uccisa, e un’altra misteriosa persona che potrebbe aver compiuto il delitto. Belli i dialoghi: come nei successivi romanzi, non sono mai banali, e aiutano il lettore a conoscere meglio i personaggi che li pronunciano.

Le cose buone finiscono circa a metà della storia. Nisbet scodella senza tanti complimenti due pagine sul passato di Widrow, raccontate così, senza motivo. La storia sarebbe anche interessante, spiega perché Widrow, da poliziotto, si ritrova investigatore privato (situazione che ormai è diventata un cliché): ma sbattuta in faccia al lettore a mo’ di spiegone non ha senso. Dopodiché Nisbet si perde in mille particolari dell’investigazione, arrivando a sprecare pagine e pagine su Widrow che entra e esce di nascosto dagli appartamenti delle persone coinvolte: paragrafi che si possono tranquillamente saltare. Il finale arriva come una ghigliottina sulla capoccia di un condannato a morte: così istantaneo che nemmeno te ne accordi. Il confronto col Cattivo è un confronto lasciato a metà, tanto che ci si ritrova a girare pagina, in attesa di scoprire cosa succede e ti ritrovi con un foglio bianco. E, no, non è un errore di impaginazione. Un romanzo riuscito a metà.

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Inseguendo Nisbet. Reportage dal Salone del Libro 2010

Il logo del Salone del Libro 2010

Siete mai stati a un grosso mercato del pesce? Io no. Però sono stato al Salone del Libro di Torino. Sostituite la puzza di branzini, tonni e calamari con quella della cellulosa – e in culo all’e-book – e il gioco è fatto. Già vi girano le balle all’ingresso, mentre siete lì in una fila chilometrica sotto il Sole aspettando di pagare una manciata di euro per entrare nel tempio italiano della cultura libraria. Poi, una volta che vi piantate sulla soglia dell’ingresso rigirandovi tra le mani la cartina che la gentile bigliettaia vi ha dato cercando di scoprire dove minchia si trovi ‘sta Sala Azzurra in cui si svolgerà l’incontro con Jim Nisbet e Sandro Veronesi, le balle vi iniziano a vorticare così tanto che vi beccate pure un raffreddore per la corrente che creano. Guarda che noi siamo qui in questo momento, no no, ma che dici, siamo qui. Ok, calma. Dov’è il Nord? Guarda il muschio sui tronchi mi dice Ada, mia moglie, compagna, partner o quel che volete voi. Chiedo a una passante, non vedo gli occhi a mandorla, ma quando mi scatta una foto con la sua Kodak capisco che è una giapponese. Arigatò arigatò. D’ora in poi so che qualcuno laggiù nel Sol Levante avrà la mia effigie nei ricordi di un esotico viaggio in Europa.

Comunque, andiamo per gradi. Vicino all’ingresso intuiamo che c’è la Sala dei 500 e non so perché ma mi vengono in mente Leonida, le Termopili e il “Questa-è-Spartaaaa!!” di Gerard Butler. Lo so, non c’entra una mazza, ma non comando mica tutte le mie sinapsi. Ne discuterò, nel pomeriggio, con Edoardo Boncinelli al secondo incontro che ho adocchiato sul programma della manifestazione, una sorta di catalogo Ikea grosso così. Dovrebbe esserci Scott Turow nella Sala di Leonida e compagni (più 200). La fila è lunga. Ok, mettiamoci in fila. Arriviamo all’ingresso. Voi non potete entrare, mi dice quello. Scusi? Non avete il pass. Pass di ‘sta minchia. Non solo ho pagato ma pure il pass c’è bisogno? La green card mi dice quello. La green card. È gratuita, ma dovete farla in quell’altra biglietteria laggiù, appena usciti a destra. Vacca d’un cane. Prendi la cartina, cerca green card point e cerca di raggiungere il posto. E per fortuna che io ho fatto i provinciali di orientiring e Ada è andata dagli scout. Cerchiamo un’altra volta il muschio sui tronchi e andiamo al green card point. C’è una fila da mamma li turchi. Ci mettiamo in fila. Già che ci sono faccio pure il pass per Nisbet, visto che sul catalogo Ikea il suo incontro è segnato, in basso, da un pallino verde con scritto “green card”. Per fortuna ho un colpo di genio, svicolo dalla fila e mi avvicino a un cartellone con su scritto i posti liberi per i singoli incontri. Gramellini ha già iniziato, mi dice la tipa dietro di me in fila. E a me? Io sono qui per Jim Nisbet e, se riesco, Scott Turow. Non ci riesco. Amen. E l’incontro di Nisbet non ha neppure bisogno della green card, il bollino verde sul catalogo Ikea era per l’incontro dopo, forse Susanna Tamaro, quella di Va’ dove ti porta il cuore.

Allora mando un sms a Vitandrea, lettore appassionato di Pegasus Descending – Dio lo benedica -. Mangio un panino e vengo. Muoviti che c’è Nisbet allo stand Fanucci. Ma porcaccia e come lo trovo ora, io, lo stand Fanucci? Prendi la cartina, il Nord, il muschio, girala di qua, girala di là, batti le mani, fai una giravolta e parti. In che sezione siamo, secondo te? Faccio ad Ada. La 2, dice lei. Come fai a dirlo? Guarda un po’ su, mi risponde. C’è un 2 grosso un Boeing 747 proprio sopra la mia testa. Non le sfugge mai niente, santa donna. Passiamo tra corridoi affollati dando spallate a destra e a sinistra, mi scusi signora ma c’è Nisbet, scusi scusi, c’è Nisbet, sì Jim Nisbet, no, non quello, quello del gatto con la polenta si chiama Bigazzi, non c’entrano l’uno con l’altro. Guarda, faccio, lo stand Laterza, uhm quello Rizzoli, aspetta aspetta, con lei che mi tira per la manica arrotolata della maglia. C’è Nisbet, cazzo, c’è Nisbet. Arriviamo allo stand Fanucci. Mi guardo in giro ma Nisbet non c’è. Diobò, non c’è Nisbet. Chiediamo a Sara, dell’ufficio stampa Fanucci. Già, ma che faccia ha Sara? Dalle mail non si capisce. Chiedi in giro, mi fa Ada. Ho vergogna. Sospira alzando gli occhi al cielo come chi pensa “devo fare tutto io” e trova Sara. Che sta di fianco a Nisbet! Lo guardo, lui mi guarda, io lo riguardo. Angrea (Andrea, N.d.T.)? Yes, I am. Ci stringiamo la mano. How are you? I’m fine, thanks. Nice to meet you, ridice. Me too. Non ho un cazzo d’altro da dire. Pietrificato. Come un fesso. Noi dobbiamo andare a mangiare che c’è la conferenza poi, venite? Dice quella. No, grazie, abbiamo già mangiato. Abbiamo-già-mangiato, rispondo. Ada mi tira una una coppinata sul coppino. Però, direte, ti sei fatto almeno autografare il libro, vero? Col cazzo, non me l’ero portato dietro. Uè, sono un inviato speciale, sono, mica un cacciatore di autografi!

Andiamo alla conferenza nella famosa Sala Azzurra. Il relatore prima di Nisbet non vuole schiodarsi, ha le chiappe incollate alla sedia sul palco. Muoversi, tocca a Nisbet, fora dai bal (fuori dalle balle, N.d.T.). Nel frattempo ci siamo incontrati con Vitandrea, ci stavamo telefonando guardandoci in faccia. Vabbè. Fanno sgasare quello prima, Nisbet e Veronesi arrivano e la conferenza inizia. Veronesi: <<Nisbet è un grande scrittore, va al di là del genere hard boiled, possiede un talento tale che non può fare a meno di esprimersi, di uscire fuori nelle cose che scrive. In Cattive abitudini, ad esempio, racconta come è cambiata l’America dopo l’11/9, uno scrittore non può non parlarne, a meno di rifugiarsi in un genere senza tempo. C’è qui>> prosegue quel toscanaccio di un Veronesi <<Il contrasto tra due Americhe, fornendo, così, una testimonianza importante. Se non lo fanno gli scrittori queste cose chi dovrebbero farle? I tg non le raccontano queste cose qui>>. Il mitico Studio Aperto.

Nisbet e Veronesi

Poi Nisbet inizia a parlare. Salta di pala in frasca con il suo americano molto americano, sono troppo scarso per comprendere tutto in modo puntuale. Però qui al Salone del Libero c’è una particolarità: il traduttore c’è, ma devi prenderti ‘sti auricolari sintonizzati con un call center in India. Altrimenti arrangiati. Quindi ogni volta si crea questo teatrino: tutti che non capiscono una mazza, ma nessuno che ha la faccia tosta di alzarsi e andare a prendere gli auricolari. Ma figurati, io l’inglese lo capisco come il dialetto pugliese, uansgheps american, Nisbet può pure parlare in idioma del North Carolina che gli rispondo con accento della Louisiana. Figurati, io. Ada si alza e prende due auricolari. Ok. Però anche la traduttrice deve aver fatto le serali al CEPU, perché non si capisce una mazza della traduzione e se il vicino di casa di Nisbet, come da lui raccontato, non sapeva chi fosse Wladimir Putin (il judoca, giusto?), la traduttrice di Bombay  con contratto in scadenza non sa chi sia Dick Cheney, visto che cerca di tradurne il cognome, non riuscendoci, ovviamente.

Andiamo avanti così per un po’, poi si apre lo spazio domande, naturalmente non previsto. E se il signore alla mia sinistra si alza chiedendo spiegazioni sul finale di Iniezione letale, venendo subito abbattuto in tackle da dietro da Sergio Fanucci, quello alla mia destra si alza esordendo così: <<Ho letto 1342 libri e ne ho scritti tre>>. Cunt u cazz (intraducibile, N.d.T.), si direbbe a Bari e interland. E ci spara il pistolotto imparato a memoria, del tipo “mettete i fiori nel vostri cannoni, fate l’amore non fate la guerra”. Prendo nota per la prossima volta che devo sparare a qualcuno. Due palle. Quando organizzavo eventi e serate culturali con un ospite c’era sempre il pirlone che nello spazio domande doveva fare il relatore aggiunto, propinarci la sua interessantissima visione della vita, la sua opinione, il suo punto di vista. Ma perché, questa gente, nessuno la invita mai a parlare al di qua del tavolo? Mistero, chiamiamo Raz Degan o Enrico Ruggeri.

Scappiamo da Boncinelli, il biologo, genetista etc., per l’incontro sulla memoria e i suoi processi. Sala Rossa. Prendi la cartina, girala di qua e di là, il Nord, il muschio e per fortuna che ho fatto i provinciali di orientiring. Uuuu guarda, lo stand Meridiano Zero, andiamo a vedere se c’è Matteo Strukul! Non c’è. Andiamo da Boncinelli. C’è l’aria condizionata e mi viene mal di pancia. Boia porco. Prima dell’Edoardo parla un altro dottore, un neurologo, Bonini si chiama, e mi fa tornare in mente perché ho piantato lì medicina dopo quattro anni e relativi esami. Dunque, questo arriva con le sue cazzo di fottutissime slide in power point con roba in inglese, figurine di sinapsi e neurotrasmettitori, TAC e risonanze magnetiche di cervelli sani e di altri colpiti da Alzheimer e parla e parla, saltando di palo in frasca, ma senza il gioviale estro di un Jim Nisbet qualsiasi. Lui è serio serio, qui si parla di cose serie serie. Speriamo non ci fosse in sala nessun aspirante studente di medicina, altrimenti me lo ritrovo a scienze politiche l’anno prossimo. Poi, per fortuna, parla Boncinelli, e spero che in sala ci sia qualche aspirante studente di medicina così sono sicuro di non ritrovarmelo a scienze politiche l’anno prossimo.        

Però bisogna correre, bisogna muoversi, che il Salone deve andare avanti, siamo già fuori tempo massimo e dopo c’è un altro incontro, bisogna liberare la sala. Fuori dai coglioni, please. Ma prima Odifreddi ci ha fottuto mezz’ora. Frega niente, lui è stato a Porta a Porta, c’era pure bisogno della green card (vedi sopra, N.d.R.) per assistere al suo incontro. È un vips. Un vips.

E così il discount della cultura va avanti, gli spot pubblicitari delle menti non possono fermarsi, bisogna rispettare il programma. Mezz’ora a testa, non di più. Questo è business ragazzi, business. Mica trippa. Un tanto al chilo, come il pesce. Secondo te dov’è la Sala Verde Pistacchio? 

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The Nisbet’s Rule: “Chi incontri a pagina uno è completamente fottuto”

Jim Nisbet

Non ho bisogno di dire che Jim Nisbet è un autore che apprezzo molto, se avete letto le mie recensioni di Iniezione letale e Cattive abitudini già lo saprete. Nisbet è uno scrittore in grado di travalicare il genere, di sondare i recessi più remoti dell’animo umano come pochi altri sono capaci di fare. Non è probabilmente un caso che nell’intervista rilasciata in esclusiva per Pegasus Descending e che potete leggere qui sotto, citi più volte sia Tolstoj sia Dostoevskij. Non si vuole, con ciò, fare dei paragoni che avrebbero poco senso e scarso valore, bensì sottolineare come in tutta l’opera di Nisbet sia sotteso, dopo opportuna digestione e assimilazione, l’insegnamento dei due geni russi.

Jim Nisbet sarà Domenica 16 Maggio a Torino presso il Salone del Libro alle ore 13.30 (Sala Azzurra) con Sandro Veronesi, mentre il giorno dopo, Lunedì 17 Maggio, presenterà alla Libreria Egea di Milano (via Bocconi 8 ) con la prof.ssa Paola Dubini il suo libro Cattive abitudini, per poi effettuare un breve tour di firma copie presso la Libreria Mondadori di Piazza Duomo alle 13.30 e, alle 15, nella Libreria Hoepli di via Hoepli 5.

 

Qual è stato il suo primo incontro con la letteratura?

Attraverso la lettura, naturalmente. Una lettura onnivora. Poi mia madre deve aver notato qualcosa e mi ha dato una macchina da scrivere quando avevo tredici anni.

Quando ha pubblicato il suo primo libro?

Il mio primo libro pubblicato si intitolava Poems for A Lady, e apparve nel 1977. Il mio primo romanzo pubblicato, invece, fu The Gourmet, nel 1981, ripubblicato poi da Black Lizard nel 1985 come The Damned Don’t Die e, a proposito, uscito in Italia per Bompiani con il titolo I dannati non muoiono nel 1993. Riapparirà questo autunno in America, trent’anni dopo. Incredibile.

Iniezione letale si apre con 57 magnifiche pagine che descrivono la morte di un condannato. Perché una così dettagliata descrizione? Ha fatto delle ricerche in merito?

La prima parte non è una domanda, ma ti ringrazio.

Iniezione letale

In quanto al motivo per cui la prima scena è scritta in questa maniera oppure da dove proviene la potenza di questo passaggio, non saprei realmente dirlo. È vero che ho trattato il soggetto e il momento in modo estremamente serio perché, del resto, sono seri. Molto seri.

Posso però tentare, per te, di tornare all’origine dei motivi – non posso realmente chiamarla ispirazione – che mi hanno indotto a portare avanti l’idea della prima scena. Il tutto è nato da un minuscolo articolo di giornale, meno di cento parole, circa un ragazzo in Texas. Era stato processato, giudicato colpevole e condannato alla pena di morte per un omicidio commesso nel corso di una rapina. Nel 1976, intanto, la Corte Suprema aveva deciso che la pena capitale era di nuovo legale. Gli ingranaggi della giustizia si presero il loro tempo per girare, ma – penso nel 1984 o 1985 – tutto era pronto per la prima esecuzione capitale dopo molti anni. Il Texas fu il primo a riammetterla e ancora oggi credo che sia lo Stato con il maggior numero di esecuzioni. Ormai la sedia elettrica, l’impiccagione e il plotone di esecuzione erano stati sostituiti dall’iniezione letale. (Lo Utah, per fare un esempio, ancora permette al prigioniero condannato di decidere tra l’iniezione letale e il plotone di esecuzione. Tutti, in America, ricordano le ultime famose parole di Gary Gillmore, indirizzate al proprio plotone di esecuzione: “Let’s do it”. La Florida continuò ad utilizzare la sedia elettrica fino a un macabro inceppamento avvenuto solo pochi anni fa. E così via.)

Comunque, dopo molti ostacoli, per così dire, era giunto il tempo, per questo giovane prigioniero che era anche, tra l’altro, un maschio nero, di andare al Creatore, come si suole dire. Lo accompagnarono dentro la camera della morte, lo legarono, gli inserirono due aghi, iniziarono a somministragli una flebo di soluzione salina per inibirgli la coagulazione e il telefono sul muro suonò: il suo avvocato era riuscito, all’ultimo minuto, ad ottenere una sospensione dell’esecuzione. Allora gli tolsero la flebo, rimossero gli aghi, slegarono il nostro ragazzo e lo riportarono nella sua cella nel braccio della morte.

Una settimana dopo, secondo un altro articolo di un centinaio di parole (che, per ironia della sorte, è chiamato “pallottola” nella terminologia giornalistica), lo riportarono nella camera della morte e lo uccisero per davvero. Non ci fu nessun drammatico rinvio e morì in un minuto e mezzo.

È stata questa settimana che mi ha affascinato. Che cosa poteva essere passato nella mente di questo ragazzo? Noi tutti sappiamo che Dostoevskij fece una esperienza simile (fu condannato a morte e graziato proprio davanti al plotone di esecuzione, N.d.R.) e che scrisse cose molto interessanti in merito. Ma Dostoevskij era un genio. Conosci quel commento secondo cui “Niente accade per caso a un artista”? Dostoevskij disse molte cose, ma non quella! Comunque, Bobby Mencken, come ho spontaneamente scelto di chiamare il mio giovane condannato nero, non era in Russia né, tanto meno, nel 1854. Era in Texas intorno al 1980. A quel tempo il Texas era l’unico Stato nel Paese ad aver resuscitato, per così dire, la pratica della pena capitale e il primo Stato a somministrarla mediante una iniezione letale. In più la prigione di Huntsville era ed è un posto molto famoso – che, tra l’altro, ho praticamente escluso dal romanzo, anche se forniva parecchio materiale. L’annuale rodeo dei prigionieri, per esempio. Oppure, per fare un altro esempio, la raccolta del cotone necessario per le uniformi -. Quindi è per questa ragione che ho ambientato il libro in Texas. E inoltre il Texas mi piace.

È così che il libro è nato. Subito, naturalmente, la narrazione ha cominciato a prendere la propria strada e, seppur essendo portati a fare ricorso alle piccole astuzie in possesso di ognuno, bisogna prestare attenzione a questo processo. Trovavo che il dottore fosse un personaggio interessante e così è stato.

Per quanto riguarda la ricerca, ti dirò la verità: non ne ho fatta alcuna fino a che non avevo già scritto la prima stesura del libro. In un certo senso tutto ciò è assurdo, naturalmente. Ho già menzionato Dostoevskij e la mia quotidiana abitudine di leggere il giornale. Lo sai che Dostoevskij ebbe l’idea per il personaggio di Raskol’nikov da un articolo pubblicato su un quotidiano? Idem Stendhal e Julien Sorel. Uno scrittore, un articolo di giornale, un romanzo. Comunque, essendo come sempre senza soldi, ho scritto il romanzo in quattro settimane, semplicemente perché non potevo concedermi altro tempo per lavorarci sopra. Al termine delle quattro settimane ho cercato di mettere le mani su qualsiasi cosa il San Francisco Chronicle avesse pubblicato in merito alla pratica dell’iniezione letale, che ormai aveva iniziato ad essere applicata nello Stato del Nevada, proprio accanto alla California. Una notte mi sedetti in un bar e lessi questo fascio di carte piuttosto modesto, che conteneva un resoconto di un reporter/testimone e i farmaci utilizzati. Il giorno dopo tornai al mio manoscritto e trascorsi un’altra settimana su di esso, con l’idea di avvicinarmi il più possibile alla verosimiglianza e accertandomi che questa fosse costante per tutto il libro.

Cinque settimane in tutto. Fine dello svolgimento. Fine dalla ricerca. Fine dei soldi. Fine del tempo. Poi tornai alla falegnameria.

Non molto tempo dopo vendetti il libro al primo editore che lo aveva letto, il romanziere Barry Gifford, che in quegli anni era l’editor della Black Lizard Books. Riuscì a pagarmelo un migliaio di dollari.

La stessa cosa, tra l’altro, era capitata anche sei o sette anni prima per il mio primo romanzo pubblicato. Il primo editor che lesse The Gourmet, lo comprò; lei, comunque, riuscì a darmi mille e cinquecento dollari. Quindi, in termini contrattuali almeno, ero in netta fase discendente.

Sia Iniezione letale sia Cattive abitudini hanno come protagonisti un uomo comune scaraventato in un mondo criminale che, per lui, è totalmente alieno. Perché questo genere di personaggio?

Perché forti contrasti forniscono ricche dicotomie.

Mi è parso di leggere in Cattive abitudini un fortissimo contrasto tra la razionalità del protagonista e il potere del destino che sconquassa la sua vita. È una lettura corretta la mia? Perché questa scelta?

Sì, sicuramente. Vuoi dire quanto questa sia una scelta dovuta a me? Beh, come ho detto anche prima, uno scrittore deve fare attenzione a dove sta andando il proprio libro. Io avevo uno scienziato con alcuni vicini misteriosi. So che questo concetto può sembrare strano per la mentalità italiana, ma in America un sacco di persone non arriva a conoscere i propri vicini. Per non parlare, poi, di quanto nella fisica delle stelle a neutroni il razionale e l’incomprensibile si incontrano e si fuggono.

 

Cattive abitudini

Cattive abitudini è stato da poco pubblicato in Italia. Qual è il substrato, il significato e la lezione morale (se ce n’è una) di questo romanzo?

 Questo lo lascio dire al lettore…

Perché fa finire il romanzo in un casinò?

Beh, inizia in un casinò, no? [si riferisce alla lotteria iniziale, N.d.R]. C’è forse qualche luogo che non è un casinò?

Qual è, secondo lei, il ruolo del destino nelle nostre vite?

Beh, in senso stretto, il destino è il corso della vita di ciascuno di noi. Detto ciò, ci sono molti dibattiti in merito a chi comanda. Tendenzialmente siamo portati a pensare che se le cose vanno come si voleva che andassero, allora sei tu che comandi. In caso contrario viene dato il merito o la colpa ad altre forze, a seconda che il corso della propria vita sia piacevole o meno.

Queste idee sono alla base di molte speculazioni e molta letteratura. Si pensi, ad esempio, alle ultime cento pagine di Guerra e Pace, dove Tolstoj svolge una corposa argomentazione in merito all’idea che il destino dell’uomo è fuori dalla portata delle sue mani, mentre è forse Dio che comanda. Tutto ciò nonostante le precedenti novecento pagine in cui un tizio di nome Napoleone sta menomando il proprio destino insieme a quello del resto dell’intera Europa. È un ragionamento interessante. Ma, dopo un po’, Tolstoj e la sua insistenza sul concetto di Dio iniziano a diventare noiosi.  Si pensi allo studio di George Steiner intitolato Tolstoj o Dostoevskij. È un lavoro accademico molto interessante, anche se molto difficile da comprendere se prima non hai letto tutto sia di Tolstoj sia di Dostoevskij. Ed è realmente vero che questi due scrittori tendono a dividere ordinatamente i lettori del mondo in due campi, per così dire, in due gruppi. I loro rispettivi approcci nei confronti del destino hanno molto in comune con quella dicotomia di cui dicevamo prima. E, naturalmente, se una domanda così non è mai bianca o nera, le risposte sono tutte grigie.  

Perché hai scelto il noir?

È il noir ad aver scelto me. Lasciami spiegare meglio citando Faulkner: “Rimproverare uno scrittore per l’uso della violenza è come rimproverare un falegname per l’uso del martello”.  O qualcosa di simile. Belle parole. Parole più vere non sono mai state pronunciate. Ma tieni d’occhio quello che il tipo sta costruendo. Alcuni lasciano i segni del martello sopra tutti i loro lavori di falegnameria.

Naturalmente Faulkner non menziona mai la Regola del Noir di Jim Nisbet. Ce n’è solo una: chiunque tu incontri a pagina uno è completamente fottuto e potrà solo stare peggio.

Forse non conosceva questa regola. O forse non ne aveva bisogno. 

Come nascono i tuoi romanzi?

Ho idee in continuazione. Ma le idee che scelgo sono le uniche che sembrano non avere nulla in comune con quello che ho già visto in passato. Con il passare degli anni e dei romanzi, questo ethos fornisce molte difficoltà, ma anche molto interesse, per me che faccio lo scrittore. 

Quale tuo romanzo preferisci e perché?

Suppongo che mi piacciono per motivi differenti, ma ci sono forse quattro cose che tutti hanno in comune. Ognuno rappresenta, grosso modo, il miglior lavoro che potevo fare in quel momento e, sebbene siano tutti diversi, puoi sempre dire chi li abbia scritti. Inoltre, le persone che si prendono la briga di chiedermi circa i miei romanzi hanno tutte un loro preferito e questo pregiudizio o preferenza o opinione è abbastanza uniformemente distribuito tra tutti i titoli. E questo mi piace.   

Lei è anche un falegname. Ci sono affinità con la scrittura?

Le due cose sono complementari, senza alcun dubbio. Mentre una ti affama, c’è sempre una possibilità che l’altra ti dia da mangiare. Mentre una esercita la mente, l’altra allena il corpo, anche se, naturalmente, c’è il tai-chi per la relazione tra questi due aspetti. Mentre una è praticata seduto ad una scrivania in solitudine, l’altra è svolta all’aperto, in piedi e in mezzo ad altri artigiani. Questo, almeno, era vero quando ho iniziato io.  E i giorni degli inizi sono diventati i giorni di mezzo, e quelli di mezzo i giorni più recenti… e così via. Inoltre ci sono degli elementi ulteriori. Una volta ho lavorato in un gruppo di costruzione molto ampio, probabilmente 60 uomini, in cui ogni suo membro era in libertà provvisoria, me escluso, e io ero in prova.

C’è bisogno di dare spiegazioni?

Potrebbe darci qualche anticipazione sul suo prossimo libro?

Se ti riferisci al mio “ultimo” romanzo come Cattive abitudini ce ne sono altri quattro dopo quello. Ma ricorda, chiunque incontri a pagina uno…

Dopo Cattive abitudini viene The Octopus on My Head. Poi, Windward Passage, che è già stato pubblicato negli Stati Uniti. A seguire, Old & Cold, che uscirà nella primavera del 2011 (2011!). Dopo quello sarà la volta del romanzo che ho appena terminato di scrivere, intitolato Snitch World.

C’è, negli USA, un giovane scrittore di noir particolarmente interessante?

No fucking idea. [Non ne ho la minima idea]

 

Un grazie di cuore a Olivia Crosio che, in anteprima, ha letto e rivisto la mia traduzione dell’intervista rilasciatami da Jim Nisbet. Non ho bisogno di dire che qualsiasi cosa che non funzioni sia da attribuirsi solo ed esclusivamente a me.

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Diavolo d’uno slang! L’intervista a Olivia Crosio

Olivia Crosio

Ho fatto una chiacchierata con Olivia Crosio, traduttrice, tra gli altri, di quei Dave Zeltserman e Jim Nisbet da me tanto apprezzati. Come giustamente afferma Luca Conti sul suo blog personale, Last of the Independents, “I libri non si traducono da soli”. Mi è parso quindi giusto conoscere e farvi conoscere un po’ meglio Olivia Crosio, il cui lavoro ci permette di passare qualche ore in relax e divertimento. E di continuare a parlare l’inglese uan sgeps america.

Come sei arrivata alla traduzione?
Volevo trovare un mestiere che mi lasciasse libera di fare tutte le altre cose che mi piacevano, e al momento mi è sembrato quello giusto. Cominciare non è stato facile: una sera a una festa ho conosciuto uno che conosceva una che conosceva un’altra… Sono approdata alla Harlequin Mondadori e da lì ho iniziato, con il genere “rosa”. La libertà però si è vaporizzata quasi subito. Mi rimane la consolazione che, se un mercoledì voglio andare a spasso, posso sempre lavorare il sabato…

Qual è il tuo metodo di lavoro nel momento in cui approcci un libro?
In teoria prima di iniziare una traduzione bisognerebbe leggere il libro. Non sempre lo faccio. Non ho un metodo particolare di approccio: mi faccio un tè, mi metto al computer e comincio il viaggio.

Hai tradotto due tra, a mio avviso, i migliori autori contemporanei di noir: Zeltserman e Nisbet. Ci faresti un nome di un autore ancora inedito in Italia che meriterebbe una traduzione? Perché?
Ah, non so rispondere! È una domanda da fare alle agenzie letterarie.

Cattive abitudini

Che difficoltà hai incontrato nella traduzione di questi due autori?

Nisbet è stato irto di difficoltà linguistiche, per via dello slang. Anche il suo amore per i particolari mi ha creato non poche difficoltà. Il capitolo sulla camera della morte ha richiesto molte ricerche (si riferisce a Iniezione letale, n.d.r.). Non volevo tradire l’autore semplificando (a volte si fa) perché avrei stravolto lo stile e l’atmosfera e, soprattutto, avrei attenuato la crudezza del testo. Zeltserman invece è filato via liscio. Io adoro tradurre i dialoghi e con Piccoli crimini mi sono potuta ampiamente sfogare.

Che registro linguistico usano nella loro lingua originale?
Nisbet ha usato un registro molto colloquiale, basso. Peccato che lo slang inglese sia molto più colorito del nostro e, non conoscendo il gergo malavitoso, mi sono dovuta arrangiare con i termini che conosco. Caricare le frasi della dovuta violenza però non è stato facile. Zeltserman narra in prima persona, quindi il linguaggio era molto povero, perché il protagonista è un delinquentello di terza categoria. L’originale era pieno di “dire e “fare”.

Come tradurre, quindi, nel miglior modo possibile espressioni dello slang?
Come dicevo sopra, lo slang è sempre difficoltoso perché spesso è legato, sia nella lingua di partenza che in quella di arrivo, a un determinato “gruppo” o regione geografica. Possiedo alcuni validi vocabolari e uso molto internet. A volte nessuno dei due aiuta, e allora vado a senso. Lo slang costringe sempre, più che a una traduzione, a una vera e propria riscrittura.

Come fai a rendere al meglio le diverse voci e stili dei vari scrittori, a non uniformarli a un tuo personale registro?
Con gli autori bravi, quelli che sanno scrivere, viene automatico. Anzi, per me variare genere è un modo per variare anche il mio spettro di registri. Come succede per gli attori che devono interpretare un testo, anche noi traduttori interpretiamo, e questo è proprio il pericolo: uniformare. Bisogna leggere tanto in italiano, cercare sempre nuovi vocaboli, secondo me io per esempio dovrei andare di più al cinema.

Quando traduci un testo prendi contatti con gli autori dei testi medesimi?
Quasi mai. A volte ci ho provato, ma non ho mai trovato collaborazione da parte della casa editrice italiana. Molti autori so che, pur di essere tradotti all’estero, sono ben felici di fidarsi del traduttore e, una volta venduto il libro, non ne vogliono più sapere. Nessuno o quasi di loro, poi, conosce l’italiano.

Piccoli crimini

Se sì, che tipi sono? Hai qualche aneddoto su qualche autore che hai tradotto?

Una volta mi telefonò un tizio che aveva scritto di un taxista americano che portava un cliente ad Atlantic City. Era una storia fine e gustosissima, sullo stampo di “Baghdad Cafè”, per intenderci. Voleva sapere come stava andando il libro Italia. Io, che lo avevo tradotto quasi un anno prima, non ricordavo più nemmeno chi lui fosse e gli dissi che il libro andava benissimo, poi chiamai la casa editrice e venni a sapere che invece non avevano intenzione di pubblicarlo, perché era “troppo americano”. Che follia. Lui era fantastico, si chiamava Israel.

Tu sei anche scrittrice…
Dopo tante traduzioni dovevo provare! Ho scritto un libro, “Solo in città”, che poi è stato pubblicato nella collana Teens di Fanucci, anche se non era proprio solo per adolescenti. Siccome è piaciuto, dopo ne ho scritto un altro per la stessa collana, “Giulio e il colore dei baci”, ma anche questo è piaciuto forse più agli adulti che non ai ragazzi. Allora ho deciso di provare con un libro per tutti, e ci sto lavorando. Più che altro, ci sto lottando.

Per chi, come me, ha sempre arrancato dietro alle lingue straniere coloro che le padroneggiano come te suscitano sempre un misto di invidia e ammirazione. Ma come fai? Solo frutto dell’esercizio e dello studio?
Non ci crederai, ma io l’inglese lo parlo malissimo. Davvero. Ormai lo uso solo durante le vacanze, se vado all’estero. Lo leggo e lo scrivo quasi come l’italiano, ma parlarlo… Cerco di guardarmi qualche film in inglese con i sottotitoli, per tenermi un po’ in esercizio. Ascolto le canzoni e cerco di capire i testi (difficilissimo). Forse per questo vado in palla con lo slang. Spero ti sia di consolazione!

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Cattive abitudini – Jim Nisbet

Cattive abitudini

CATTIVE ABITUDINI
di Jim Nisbet
ed. Fanucci
Traduzione di Olivia Crosio

Leggi le prime cento pagine di Cattive abitudini, il nuovo romanzo pubblicato in Italia da Fanucci di Jim Nisbet, e cerchi di capire, parola dopo parola, dove l’autore voglia andare a parare. Cosa può interessarmi delle paturnie di Banerjhee Rolf, un brillante scienziato di mezza età che ha perso il lavoro e ora passa le sue giornate senza avere più un cazzo da fare se non stare dietro alle begonie e alle stelle a neutroni, interessanti corpi celesti a una sporta di anni luce di distanza dal suo rachitico reddito annuo?

Leggi questa manciata di pagine e ti sembra, per certi versi, di rivedere l’impostazione del bellissimo Iniezione letale: uomo ordinario che per un caso più o meno fortuito della vita si ritrova a dover fare i conti con il bilancio della propria esistenza mediante alcuni incontri con una genia umana piuttosto distante dalla sua. Se nel romanzo appena citato e datato 1987 il dottor Royce si sarebbe ritrovato catapultato in un mondo fatto di lerciume e degradazione in cui, dopo un iniziale smarrimento, adattarsi lasciandosi alle spalle tutti i condizionamenti sociali che gli avevano permesso di costruirsi una rispettabile, per quanto modesta, posizione, in Cattive abitudini l’incontro con due vicini di casa alquanto bizzarri è ciò che dà costrutto e anima all’intero romanzo, riassumibile con la frase riportata a pagina 134: “Ripensò alla famosa frase secondo cui la vita è qualcosa che ti succede mentre sei impegnato in altri progetti”.

È il Caso a guidare la vita di Banerjhee, in una magnifica contrapposizione con il suo essere una persona totalmente razionale e con tre lauree in ambito scientifico, uno che non trova definizione migliore della felicità se non come un “basso coefficiente di attrito” [pg. 16]. La vita e le convinzioni di una tale persona sono prese letteralmente e costantemente a bastonate sui denti per le intere 156 pagine di romanzo, mandando in vacca anche i buoni propositi di Machiavelli secondo cui solo una metà del nostro destino è in mano alla Fortuna. L’altra la decidiamo noi, con le nostre azioni e le nostre scelte.

Rolf perde il lavoro che amava e a cui aveva dedicato gran parte della sua vita, privandosi della gioia di un figlio che cresce o del tempo da dedicare alle sue passioni, giardinaggio e astronomia su tutte. Rolf si ritrova come vicini di casa due tipi come Toby ed Esme che sono ai suoi antipodi: svaccati, fancazzisti, sospetti spacciatori di droga, impegnati solo a scopare come ricci e fermamente convinti che una svolta alle loro vite non derivi dal lavoro e dall’impegno quotidiano frutto di una ferrea ottica protestante, bensì dai colpi di culo e da una lotteria a cui giocano con continuità e convinzione. Per loro la felicità sono “i soldi […] la cosa migliore dopo i letti ad acqua e l’olio di oliva” [pg. 16]. Rolf si ritrova a casa da solo dopo che l’amata moglie Madja si trasferisce a Chicago per stare più vicina al figlio, lasciano Banerjhee a friggersi le chiappe al Sole della California. Una sera, rientrando a casa, trova Esme nuda che gironzola in lacrime per il suo giardino dopo un diverbio con Toby. Da qui le cose cambieranno per sempre, senza che Rolf, il matematico razionale calcolatore di probabilità, abbia mai trovato una formula adeguata in grado di prevedere come, da lì a poco, la sua vita sarebbe andata completamente a puttane a causa del fottutissimo Caso. Non ha deciso un cazzo di niente e ci ha messo gran parte della sua vita a comprendere questo elementare fattore, questa variabile difficile da sostanziare con un numero o un valore quantificabile. Allo stato dell’arte non gli resta, quindi, che la fuga, nel tentativo di ritagliarsi un personale spazio di autonomia in ciò che il destino gli ha riservato, nel finale ed estremo tentativo di prendersi una rivincita nei confronti del Fato.

Cattive abitudini, romanzo del 2006, si propone decisamente come un racconto post 11 Settembre 2001, data che, non a caso, ricorre frequentemente nella sviluppo della storia e nelle parole dei suoi protagonisti. Il nuovo lavoro di Jim Nisbet pubblicato nel nostro Paese è un romanzo marcatamente incentrato sul crollo di qualsiasi certezza, un noir a tinte nerissime che seppur non presentando nella sua trama alcun cliché di genere – c’è solo una sparatoria, nessun poliziotto sfigato o depresso, pochissima azione e un mare di riflessione introspettiva – trasmette un cronico sentimento di sospensione, di attesa, di costante aspettativa: sappiamo che dovrà succedere qualcosa, ma non sappiamo quando e cosa. È il senso della nostra vita. Sappiamo che qualcosa succederà, non abbiamo alcuna scelta. Ma cosa accadrà, diversamente, non ci è dato saperlo. Nisbet riproduce tutto ciò in poche pagine attraverso il racconto di un uomo. Un uomo, è proprio il caso di dirlo, che è un modello matematico o economico, un qualcosa di artificiale e che presenta delle semplificazioni volte a renderlo utilizzabile nella realtà controllando o non considerando alcune variabili, così da renderlo esplicativo del mondo che ci circonda. Diversamente avremmo una fotografia della realtà, sicuramente più fedele al vero, ma non in grado di spiegare perché eccessivamente complessa. Sono pochissimi i Banerjhee Rolf del mondo, ma pure loro sono soggetti al Caso, pure loro con il loro megacervello a noi non dato sono sotto i colpi duri e terribili della Fortuna che guida le nostre vite più di quello che vorremmo.

E solo alla fine in un lercio casinò di periferia il protagonista del romanzo capirà la vera essenza della vita, l’unico antidoto a una forza soverchiante: è vero che il Fato te lo mette sempre nel culo. Ma non agitarti, perché così lo faresti solo godere di più.

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Coming soon: Cattive abitudini di Jim Nisbet

Cattive abitudini

Su Pegasus Descending potete leggere la recensione di Cattive abitudini di Jim Nisbet.

Dopo il Crumley de “La cattiva strada” appena uscito in libreria è già – e di nuovo – tempo di un altro imperdibile di questo 2010 partito bello frizzantino (agli sbadati ricordo anche “Il sangue è randagio” di James Ellroy e il magnifico “Piccoli crimini” di Dave Zeltserman). Uscirà infatti intorno alla prima decade di Marzo per Fanucci un nuovo romanzo di Jim Nisbet, “Cattive abitudini”, dopo che il 2009 si era per me concluso assegnando al precedente “Iniezione letale” il primo posto nella votazione per il Bloody Mary Award promosso da ThrillerCafè, premio che sancisce il miglior romanzo noir, thriller etc. pubblicato in Italia nell’anno appena conclusosi. Aspettando la recensione di “Cattive abitudini” su Pegasus Descending mi congedo dirottandovi a quella del bellissimo “Iniezione letale” proponendovi, inoltre, un primo assaggio della trama del libro di prossima pubblicazione.

TRAMA: Banerjee Rolf, un brillante ed equilibrato scienziato indiano americano, vive una vita tranquilla con sua moglie, curando il giardino e dedicandosi nel tempo libero alla sua passione, l’astronomia. Ma è l’uomo sbagliato al momento sbagliato: perde il lavoro che svolgeva nel laboratorio di un’industria farmaceutica che ha contribuito a fondare e far decollare, e finisce per farsi coinvolgere nei loschi traffici del suo vicino di casa, Toby Pride, un uomo poco raccomandabile e dedito al commercio di droga, e della sua fidanzata, una tossica senza speranza. Ben presto la vita di Rolf cambia radicalmente: il suo mondo va letteralmente in pezzi, ed è proprio lui a finire nei guai con la giustizia. Crimine, cosmologia, politica, filosofia, fisica e molto altro rendono unica la sua storia, che si snoda rapida come l’assalto di un cobra e arriva a un epilogo che è al tempo stesso sbalorditivo e assolutamente perfetto.

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Iniezione letale – Jim Nisbet

Iniezione letale

INIEZIONE LETALE
di Jim Nisbet
ed. Fanucci
Traduzione di Olivia Crosio

Partiamo calmi, non usiamo paroloni: le prime 57 pagine di questo romanzo sono una delle migliori cose scritte che io abbia mai letto in vita mia.

Nonostante il tema della pena di morte sia tutt’altro che alieno sia al cinema sia alla letteratura, più o meno di genere, l’apertura di “Iniezione letale”, libro del 1987 firmato da Jim Nisbet, è qualcosa di sconvolgente, è un pugno sui denti per chiunque accetti l’idea che tale suprema punizione non è qualcosa di letterario, bensì una quotidiana realtà in molti Paesi del nostro pianeta, a partire da quel “regno delle libertà” che sono gli Stati Uniti d’America. È difficile, anzi credo sia impossibile rimanere indifferenti di fronte alla terribilmente magnifica descrizione che Nisbet fa delle ultime ore di Bobby Mencken, un ex tossico nero accusato di aver freddato una donna durante una rapina a un market notturno. Non è importante che voi siate pro o contro la pena di morte, così come non ha alcuna importanza, almeno in queste prime 57 fatidiche pagine, sapere se il condannato sia realmente colpevole oppure innocente. Quello che conta è che qui siamo di fronte alla messa in scena della morte di un uomo, nonostante tutti gli errori che egli abbia potuto commettere e gli abissi in cui la sua condotta l’abbia portato.

Non può rimanere indifferente a tutto ciò una persona come il dottor Royce, un medico a cui la vita ha già più volte sputato in faccia e a cui tutti i suoi anni di università altro non servono che a disinfettare la vena di un paziente al quale, da lì a pochi minuti, verrà iniettata una miscela letale di schifezze varie e assortite. Soprattutto se, appena prima di morire, questo stesso paziente ti confessa che lui è innocente dandoti un bacio sulla bocca. Inizia così per Royce una discesa negli inferi tra gli strati più sordidi di una società americana in cui non esiste il Bene e il Male, o almeno una loro divisione manichea, e in cui l’amore viene declinato attraverso accenti per noi incomprensibili o l’amicizia perde qualsiasi significato che ci possa suonare familiare per perdersi nella rincorsa della prossima dose di eroina.

Nisbet in duecento pagine descrive in modo magistrale le cloache figlie della droga e dell’assenza di speranza che avevo riscontrato precedentemente con tale potenza e drammatica precisione solo in “Il caso sbagliato” di James Crumley, libro del 1975. È quindi sorprendente scoprire come in un romanzo piuttosto breve si possano in definitiva trovare temi tanto profondi e complessi, articolati mediante poche pagine costruite grazie ad una asciuttezza e a una concisione che raramente ho notato in altri autori e romanzi. Nisbet ha un grandissimo rispetto per la parola scritta e il suo utilizzo, è forse per questa ragione che non spreca mai una sillaba che sia una, tutto è ridotto all’essenziale, i dialoghi sono secchi ma allo stesso tempo avvolgenti, la lettura coinvolgente e, come detto sopra, a tratti estremamente dolorosa, sicuramente mai indifferente.

“Iniezione letale” rappresenta tutto ciò che dovrebbe essere l’arte: la continua rielaborazione di concetti a noi familiari, addirittura spesso abusati, talmente quotidiani da passare inosservati alla nostra attenzione. Riflettiamoci un attimo. Alla fine la trama di questo romanzo potrebbe essere così riassunta: un condannato a morte che si dichiara innocente e un idealista del cazzo che gli crede e si mette in macchina per dimostrare che i giudici si sono sbagliati, che la pena di morte fa schifo e che siamo un po’ tutti dei fascisti figli di puttana, mentre l’autore è un progressista illuminato che ha capito tutto. Insomma, un bella trama da romanzetto di serie C. Invece, questa stessa trama passata per la penna di Nisbet ha dato vita a qualcosa di più grande, a pagine di autentica, altissima letteratura mascherata da romanzo di genere, noir, hard boiled o quello che volete voi. Siamo qui di fronte ad alcuni dei temi eterni che nascono con l’Uomo e che con lui moriranno: il delitto e il castigo, il peccato e la redenzione, la realtà e la sua rappresentazione, la sostanza e l’apparenza.

La possibilità di scegliere che senso dare alla propria vita e che direzione farle prendere. Sempre e comunque.

CLICCANDO QUI potete leggere gran parte dell’introduzione di “Iniezione letale” pubblicata su Repubblica.it e firmata da Sandro Veronesi.

Su Pegasus Descending potete anche leggere la recensione di Cattive abitudini, sempre di Jim Nisbet.

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