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Pulp, thriller, hard boiled, noir

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Gli avventurieri delle Indie – Mark Keating

Gli avventurieri delle Indie

GLI AVVENTURIERI DELLE INDIE (The Pirate Devlin)
di Mark Keating
ed. Longanesi
Traduzione di Donatella Cerutti Pini

Le storie di pirati, alla fine, sono un po’ delle crime fiction ambientate nel ‘600 e nel ‘700. A ben pensarci le analogie letterarie tra i protagonisti di arrembaggi, cannoneggiamenti e tesori nascosti e i moderni pendagli da forca sono molte e varie. Di solito i pirati sono dei reietti, spesso affascinanti e più intelligenti dei loro opponenti, anche se questo spesso altro non è che una sorta di distorsione dovuta al punto di vista, fatta eccezione per rari casi in cui lo scrittore più che esaltare le doti del suo protagonista preferisce sottolinearne le tare.

La produzione letteraria sui pirati, quindi, da Stevenson in giù, affolla da sempre le librerie e le biblioteche di tutto il mondo, dando pure vita a personaggi immortali e indimenticabili come il Corsaro Nero di Salgari, in una perenne commistione tra la fantasia e la realtà. Nelle storie di pirati la storia si sfuma nella leggenda e gente come Henry Morgan non può non imperversare nell’immaginazione di giovani – e meno giovani – con la sua memorabile, avventurosa vita.

Probabilmente anche l’inglese Mark Keating, autore de Gli avventurieri delle Indie, da ragazzino era uno di quelli che, corpo di mille balene, fantasticava su Port Royal, i Caraibi e i terribili bucanieri di Tortuga, portandolo, da grande, a scrivere una storia solida ed estremamente godibile che, come nella miglior tradizione, vede i pirati inseguire un tesoro nascosto con l’unico indizio di una mappa confusa.

Patrick Devlin, irlandese sulla ventina, mai si sarebbe aspettato di diventare uno dei pirati più rispettati e temuti dell’intero globo terracqueo. Tutto è iniziato un po’ per caso: dopo essere stato venduto dal padre a un macellaio, arruolatosi in marina come semplice manovale, si ritrova nel bel mezzo di un assalto pirata. Patrick combatte con temerarietà, ma la sconfitta è inevitabile. Come è consuetudine per i ladroni dei mari, chi vuole, tra i marinai superstiti delle navi catturate, può unirsi a loro, mentre gli altri riprenderanno la loro strada e dovranno giustificare la perdita del carico, spesso molto più importante che le vite degli uomini stessi. Patrick decide di unirsi ai pirati e, ancora una volta un po’ per caso e un po’ per meriti, si ritroverà a guidare da una parte all’altra dell’oceano Atlantico un centinaio di quei fuorilegge spietati. Il destino gli metterà tra le mani una mappa e un tesoro nascosto in una isoletta non segnata nei caldi e umidi Caraibi. Un tesoro che potrebbe indurre molti ad appendere la pistola al chiodo. O forse no.

Gli avventurieri delle Indie è un romanzo d’avventura che, nonostante l’intento ludico, non rinuncia all’accuratezza storica e in cui, grazie alla penna abile di Keating, si riesce a ricreare in maniera convincente e particolarmente immaginifica un’epoca. L’azione è la protagonista principale di questo lavoro d’esordio, ma Keating è abilissimo a rendere vivi la vita spesa su una nave, gli intrighi dei potenti sulle spalle dei poveri e di chi ritiene il dovere il proprio unico padrone, gli scontri morali fra chi iniziava una riflessione critica sulla tratta degli schiavi e sulla schiavitù in genere e chi, all’opposto, utilizzava Dio e il concetto di Dio a giorni alterni in base alla convenienza. Scrivere un romanzo storico è cosa ardua, perché alle necessità della trama si aggiungono quelle della storiografia, della correttezza ambientale e dell’uso della lingua.

Mark Keating

E se Gli avventurieri delle Indie corre via sull’acqua come fosse un tre alberi, gli unici punti deboli della narrazione di Keating sono rappresentati da un eccessivo eccezionalismo di cui ha rivestito il protagonista Devlin, sempre un passo davanti agli altri, e da un finale troppo prolisso, rinnegando, almeno in parte, quella frenesia dimostrata nelle precedenti pagine. Ma rendere un personaggio memorabile e straordinario, d’altra parte, diventa qualcosa difficile da evitare quando il racconto è tutto incentrato su di esso e, a maggior ragione, quando i propositi di serialità sono ben più che manifesti. Keating, comunque, nel romanzo presenta anche un paio di personaggi che se in questa vicenda rivestono un ruolo del tutto marginale, delle classiche comparsate, in futuro potranno farcene vedere delle belle, fornendo propellente adrenalinico a chi ama la combinazione romanzo storico/romanzo d’avventura, sciogliendo le briglie alla fantasia e, perché no, tornando pure un po’ bambini. Cosa che non guasta mai.

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I dodici segni – Lee Child

I dodici segni

I DODICI SEGNI (Gone Tomorrow)
di Lee Child
ed. Longanesi
Traduzione di Adria Tissoni

“Lasciai andare le barre e abbassai le mani lungo i fianchi. Così sembravo più piccolo. Meno minaccioso. Un uomo e basta.” [pg.19]

No, ragazzi, non ci siamo proprio. Se Jack Reacher, l’ex poliziotto militare delle forze speciali degli Stati Uniti d’America e figlio della penna di Lee Child, mi si avvicina mentre me ne sto in un vagone notturno della metropolitana di New York, io e altri quattro gatti, e mi rivolge la parola, braccia alzate o abbassare ma chissenefrega, IO MI CAGO ADDOSSO! Soprattutto se sono un terrorista, un puzzone delinquente, uno scippatore di vecchiette o uno che non paga il canone Rai. Io mi cago addosso e basta, dico sì a tutto quello che lui mi dice e non discuto, non faccio un gesto e cerco solo di fare l’indifferente di fronte a questo strano odore stallatico che si sente in giro. Qualcuno ne ha mollata una delle sue?

Jack Reacher, così come Chuck Norris, è uno che non riesce mai a rilassarsi. Anche adesso che ha definitivamente abbandonato la vita militare e tutti i i cazzi ad essa annessi e connessi, Jack non abbassa mai la guardia: anni e anni di addestramento e di gente che cerca di farti la pelle, beh, plasmano in maniera decisa i comportamenti. Dopo essersi lasciato tutto alle spalle, escusi lo spazzolino da denti, la carta di credito e un comodo paio di scarpe, Jack fa la vita che ha sempre voluto fare, errando senza alcuna meta, orario o dovere per l’intero territorio degli States. Però i tempi sono difficili e avere in giro uno come Reacher, seppur in pensione, fa sempre comodo, sempre che non lavoriate, ovviamente, per Fbi, Cia o qualche altra agenzia governativa.

Mentre se ne sta sulla metropolitana notturna di New York, quindi, la macchina da guerra di Lee Child non può fare a meno di guardarsi in giro, di scrutare i vicini di carrozza invece che sonnecchiare come fanno tutti gli altri. E mentre osserva una donna di mezz’età, bruttina e vestita in maniera decisamente inadeguata per la stagione, ecco che l’addestramento militare rispunta fuori: i dodici segni – undici per le donne – che le forze armate israeliane sono abituate a riconoscere dalle loro parti, visti gli usi e i costumi autoctoni che prevedono di farsi saltare in aria in bus o mercati con cinture esplosive piene di bulloni e altra chincaglieria arrugginita. La donna che Jack sta osservando, diobò, risponde agli undici punti previsti, neanche fosse un manuale del Mossad. Ovviamente ci sono molte cose che stridono, dall’etnia della tipa al fatto che le due di notte non sono proprio un orario di punta appetibile per un terrorista suicida. Ma, in questi casi, non si sa mai. Meglio intervenire. Forse condividendo i timori di vedersi davanti uno come Jack Reacher, la presuta kamikaze non ci pensa due volte: tira fuori una calibro 357 e si spara in testa, reimbiancando gli interni della metro. Fine della storia? No, solo l’inizio. Perchè la polizia rompe la balle a Jack, uno che notoriamente se la prende per queste cose, l’Fbi ficca un po’ troppo il naso e gente poco raccomandabile pensa di fare le scarpe al nostro che, visto che proprio insistono, ci si butta dentro come un rugbista in una mischia.

I dodici segni di Lee Child, ultima storia italiana con Jack Reacher protagonista, uno dei personaggi seriali megli congeniati e narrati delle letteratura di genere, si dimostra essere, come sempre, una lettura piacevole e avvicente. Forse a differenza di altre avventure precedenti, in questo lavoro Child concede qualcosa in più a una ambientazione da spy story, riservando l’azione nuda e cruda – che rappresenta comunque e sempre la parte più godibile della scrittura dell’autore inglese – alle battute finali, dedicando, all’opposto, i due terzi del libro a sviluppare una trama intricata in cui la verità è costantemente camuffata. O, forse, una verità, in I dodici segni, neanche esiste realmente.

Lee Child

Jack Reacher, personaggio che non usa termini come destra o sinistra, su o giù, ma i punti cardinali della rosa dei venti, uno che sa sempre l’ora esatta anche senza l’orologio, uno che misura i suoi spostamenti manco avesse un contachilometri nelle chiappe, è uno di quei duri che non possono non piacere, uno che la parola “debolezza” l’ha usata, l’ultima volta, quando a undici anni fece una indigestione di gelato all’amarena scagacciando per due giorni: “Personalmente non ero mai stato aggredito. Il che non stupiva molto. Perchè mi trasformi in una potenziale vittima, la popolazione del mondo dovrebbe ridursi a due persone. Io e un rapinatore, e in quel caso vincerei io” [pg.64] e, ancora: “Se reagisce loro vincono” e lui “No, se reagisco, loro perdono” [pg.324].

Insomma, uno così non può non scopare. E, infatti, tromba in ogni romanzo o comunque in molti. Se nel precedente Niente da perdere, però, avevamo anche creduto che le peregrinazioni a zonzo di Jack potessero realmente avere fine nella amena cittadina di Hope, in questo I dodici segni Jack si fa la tipa di turno perchè è un duro e non potrebbe fare altrimenti, è un suo dovere istituzionale, così come le donne non possono fare a meno di essere attratte da uno che svelle gabbie d’acciaio e spacca nasi e clavicole come se fossero grissini torinesi. Child, comunque, non indugia né su questi aspetti machistici e sentimentali del suo personaggio, né su alcuna divagazione dalla trama messa in piedi, componendo una megaintroduzione eslcusivamente finalizzata a una straordinaria lotta all’arma bianca che esplode, dopo un climax ascendente, come un orgasmo.

Dice la fascetta firmata dall’onnipresente Stephen King: “Jack Reacher è uno dei personaggi più affascinanti tra quelli in circolazione”. Beh, anche le marchette, ogni tanto, dicono il vero.

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Tess Gerritsen: “Quando con mia mamma non mi perdevo un film horror”

Tess Gerritsen a Milano

Se volete smetterla di passare infinite notti in ospedale o in fabbrica. Se volete diventare un autore o una autrice di bestseller, che è sempre meglio che lavorare. Se volete che dalle vostre storie sia tratta una serie tv di grande successo o che i vostri personaggi diventino così famosi tanto da essere riconosciuti tra i lettori dal loro nome piuttosto che da quello della mente che li ha partoriti, beh, se volete tutto ciò dovete andare da un emulo del dottor Freud, mettervi comodi sul suo famoso divanetto e ripercorrere gli anni dell’infanzia: se, come è accaduto a Tess Gerritsen, in Italia per la presentazione del suo ultimo romanzo, Il silenzio del ghiaccio e ancora una volta con il duo Isles&Rizzoli come assoluto protagonista, avete trascorso i vostri migliori anni con la vostra mamma a farvi scorpacciate di cinema horror, allora siete sulla buona strada e qualche possibilità di sfondare forse l’avete. Per tutti gli altri che, come il vostro blogger preferito, amavano i Puffi e gli Snorky, tanto da non essersi ancora ripreso dalla precoce soppressione di questi ultimi, lo squash può sempre essere una valida alternativa.

<<Trovo che la paura sia estremamente divertente>> dice Tess Gerritsen durante la sua presentazione milanese. <<Da piccola andavo con mia mamma al cinema a vedere qualsiasi horror passassero e mi divertivo molto. Ed è per questo, credo, che le persone leggono libri di questo tipo. La violenza>> aggiunge <<non è tra gli elementi più spaventosi di una storia, bensì l’attesa, la possibilità di essere noi in quella situazione>>.

Altro sintomo di successo, evidentemente, il vostro livello nerd: <<Sono una fan di Star Trek, non mi perdevo una convention di appassionati, ci andavo pure vestita in costume. Per questo le protagoniste dei miei romanzi, Maura (letto “Mora” ndr) Isles e Jane Rizzoli sono due facce della stessa medaglia, proprio come il capitano Kirk e il comandante Spock!>>. Le avventure dell’anatomopatologa Isles e della detective di Boston Rizzoli, come indaga Luca Crovi, uno tra i migliori intervistatori e presentatori attualmente sulla piazza per incontri di questo genere, sono nate quasi per caso: <<Non avevo minimamente intenzione di scrivere una serie del genere>> risponde la Gerritsen nel suo inglese chiarissimo anche a una capra come il sottoscritto. <<Figuratevi che Jane Rizzoli doveva morire alla fine dello scontro con Il chirurgo, un serial killer incontrato nei primi romanzi della serie. Ma io non sono una che ama pianificare le storie che scrive, piuttosto metto i personaggi in una situazione e poi mi chiedo cosa succederebbe se accadesse questo o quest’altro. E la storia, poi, si scrive da sé>>.

Il silenzio del ghiaccio

Anche Alessia Gazzola, l’autrice de L’allieva e altra autrice della scuderia Longanesi, è interessata ai segreti della Gerritsen, in particolare sul suo modo di creare la tensione: <<In ogni scena cerco di metterci qualcosa da risolvere, un disagio, dei problemi. Insomma>> dice la scrittrice di Madame X <<delle incertezze. Un po’ come ho fatto nel romanzo successivo a questo, The Silent Girl, in cui Maura testimonia contro un poliziotto e da lì ci saranno continui conflitti>>. Anche se l’incipit, come ben sa ogni esordiente che si rispetti, è una delle componenti fondamentali se si vuole almeno provare a vendere il frutto delle proprie fatiche: <<Leggo molti esordienti o aspiranti tali e già nella prima pagina sommano tutti gli errori possibili: si perdono nel tentativo di inquadrare la scena o la storia, quando, all’opposto, dovrebbero semplicemente iniziare a raccontarla>>.

L’incertezza, l’ingrediente alla base della tensione dei romanzi della scrittrice sinoamericana, è anche l’unità di misura della vita sentimentale di Maura Isles, una zitellona impenitente che proprio non ce la fa a trovare un uomo, non dico della sua vita, ma almeno normale. Ce n’è sempre una: <<Beh, se Maura avesse una vita tranquilla la storia sarebbe già finita in partenza!>>. Già, perché qualcuno insegnava che tutte le famiglie felici si assomigliano.                 

E se per la Gazzola il merito della Gerritsen è quello di aver dato un’anima a un anatomopatologo – anima che, nei miei anni di medicina, il mio algido professore mai ha dimostrato di avere. Ma vabbè – e, forse un po’ esagerando buttandola in spot o fascetta alla Stephen King, di averla costretta a tenere la luce accesa di notte – ma dai… -, il tema delle sette religiose, protagonista prepotente in questo Il silenzio del ghiaccio, è ben più che una trovata da romanziere di thriller. <<Negli USA il problema di queste sette è reale e mi ha fatto stare male conoscere le storie di ragazzine costrette a sposare uomini molto più vecchi di loro o di ragazzi obbligati a vivere lontano dalle loro madri>>. Perché l’horror non è nei libri o nei film, <<mi affascina l’oscurità ed è eccitante avere paura al buio. Ma non ho paura del buio>> conclude Tess Gerritsen, quando è la realtà, invece, a offrire ben più di una occasione per inquietarsi.

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Novità in libreria: Il silenzio del ghiaccio di Tess Gerritsen

Il silenzio del ghiaccio

Torna in libreria Tess Gerritsen, autrice di thriller di enorme successo e creatrice del duo femminile composto da Maura Isles e Jane Rizzoli, rispettivamente anatomopatologa e detective di Boston, protagoniste anche di una serie tv particolarmente gettonata. Dopo Madame X e la rincorsa di un misterioso imbalsamatore, di cui non avete potuto leggere su Pegasus Descending perché il vostro blogger preferito ha scritto la recensione nell’agosto 2010 ma non l’ha ancora pubblicata, le due cazzutissime signore sono alle prese con una nuova avventura nel fresco – ahaha, che battuta! –Il silenzio del ghiaccio. Per chi fosse interessato, l’autrice sarà anche in Italia a presentare il libro proprio in questi giorni: domani, giovedì 19 maggio, Tess Gerritsen presenterà il libro insieme all’immancabile Luca Crovi e ad Alessia Gazzola, autrice de L’allieva (sempre scuderia Longanesi), alla Feltrinelli di piazza Piemonte 2 a Milano.

IL SILENZIO DEL GHIACCIO (Ice Cold)
di Tess Gerritsen
ed. Longanesi
Traduzione di Adria Tissoni

TRAMA: Doveva essere un tranquillo weekend in montagna. Maura Isles ne aveva bisogno più che mai, per staccare un po’ da un lavoro, quello di anatomopatologa, che le ha fatto guadagnare il soprannome di «regina dei morti». E per dimenticare un amore impossibile. Doveva essere un tranquillo weekend e invece va subito tutto storto. La neve comincia a cadere troppo fitta. La stradina di montagna diventa indistinguibile. Il navigatore satellitare non funziona, così come i cellulari. Basta un attimo perché l’auto esca di strada. Sopravvissuta all’incidente, Maura si addentra nel nulla per cercare soccorso. Quello che trova, però, ha dell’incredibile e del misterioso. E ha l’odore inconfondibile della morte. Forse, presto, anche della sua. Molto presto. Se per Maura sta per iniziare il peggiore degli incubi, per Jane Rizzoli, detective della polizia di Boston, sta per iniziare la caccia. Perché nonostante Maura sia scomparsa, nonostante le prove evidenti di un destino terribile, Jane non è disposta ad arrendersi. A costo di scoperchiare un segreto orribile e letale.

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La legge del deserto – Wilbur Smith

La legge del deserto

LA LEGGE DEL DESERTO (Those in Peril)
di Wilbur Smith
ed. Longanesi
Traduzione di Giampiero Hirzer

C’era una volta Wilbur Smith? La domanda mi è sorta spontanea già a metà della lettura del suo ultimo romanzo, La legge del deserto. I libri dello scrittore sudafricano, a ragione riconosciuto come il maestro assoluto del racconto d’avventura, sono sempre stati un mix indissolubile di azione e sentimento, non inventando niente e, piuttosto, inserendosi in una tradizione millenaria che inizia con Omero, passa per Alexandre Dumas e arriva fino a Emilio Salgari. Il segreto per questo genere di romanzi, quindi, è quello che classicamente viene identificato come di Pulcinella. Ciò che cambia, invece, diventando la variabile impazzita tra il successo e la ciofeca, è il talento dello scrittore che si manifesta nella capacità di mischiare gli elementi in cocktail sempre nuovi, originali ed equilibrati, senza mai cedere o prestare il fianco alla retorica spicciola che se ne sta sempre appostata dietro l’angolo, pronta a insozzare le pagine scritte.

Anche gli ingredienti de La legge del deserto, quindi, quelli sono: Hector è un rude mercenario impegnato con la sua società di sicurezza nella protezione dei pozzi petroliferi della Bannock Oil, colosso delle materie prime ora guidato dalla bella e cazzuta Hazel, ex tennista di successo andata in sposa al fondatore omonimo dell’industria estrettativa e rimasta vedova. Hector, manco a dirsi, è bello, moro con gli occhi neri, una bocca da baciare e quel sapor mediorientale, riesce a farsi quattro ore filate di corsa nel deserto, spara come Tex Willer, mena come Tyson ed è intelligente come un convegno di nerd appassionati di fisica quantistica. Hazel, invece, è pure lei bellissima e ovviamente bionda – appello: una volta tanto, please, vorreste accontentare anche noi amanti delle more? Fine dell’appello. -, intelligente, tenace, la classica donna che non deve chiedere mai ma che si scioglie davanti alle richieste della bella e, ovviamente, pure lei bionda figlia diciottenne Cayla, una capricciosa figlia di papà in grado di urtare anche nelle sue vesti di personaggio letterario. Cayla, in viaggio sul megayacht di famiglia per i classici tre mesi di vacanze natalizie nell’isola comprata da mamma per l’occasione, viene rapita da un branco di pirati musulmani. Che si fa, che non si fa? Ci penso io, dice Hector. Mazzate, sparatorie, assassinii, tradimenti, fughe e inseguimenti. Prima, però, ci scappa pure la storia d’amore tra Hector e Hazel, due che, come vuole il copione, prima si stanno sulle balle, poi scopano come ricci e, diavolo, dove sei stata prima, ti amo più di me stesso, et cetera, et cetera, et cetera.

A differenza di altri romanzi di Wilbur Smith, La legge del deserto è un coacervo di banalità, in particolare per le centinaia di pagine che riguardano la storia d’amore tra Hector e Hazel. Se periodi come “”Oh, Hector…” sussurrò lei. “Sei stato veramente crudele. Come hai potuto lasciarmi vivere senza di te tutti questi anni?” “Io ti ho sempre cercata, ma… sei stata brava a sfuggirmi… “” [pg.276] sembrano far precipitare il lettore all’interno di un romanzetto Harmony trovato dalla parrucchiera, Smith indugia eccessivamente anche nello sprecare parole e pagine continuando a ribadire, più e più volte, fino alla nausea, quanto Hazel sia speciale e forte e brava e bella e intelligente e, analogamente, quando Hector sia speciale e forte e bravo e bello e intelligente, mentre i nemici solo dei pirati puzzoni e terroristi integralisti da far fuori. Insomma, La legge del deserto manca completamente di qualsivoglia complessità, a differenza, invece, di altri romanzi dello stesso scrittore milionario pubblicati in passato, in particolare per quel che riguarda lo sviluppo dell‘intreccio. Troppe, inoltre, sono le pagine in cui la storia si ferma e fa una pausa. Pause che forse sono funzionali a introdurre i successivi eventi, ma che, in sostanza, rendono la lettura noiosa e trita, un continuo susseguirsi di successi e dolcezze da far cariare i denti.

La legge del deserto, incredibilmente, sembra addirittura un romanzo non scritto da Wilbur Smith oppure, all’opposto, un romanzo scritto da un Wilbur Smith che pare aver esaurito tanto le idee per comporre una storia con un minimo di originalitò, quanto la sua passata e formidabile capacità di scrivere cinquecento e passa pagine filate e a perdifiato, con un ritmo narrativo encomiabile e con personaggi mai così retorici come gli Hector o le Hazel di questo suo ultimo lavoro.

Anche se non è americano, Smith scrive come e più di un americano. Il Superuomo, forse più di dannunziana che di nietzschiana memoria, sgorga dalla sua penna senza soluzione di continuità, ogni gesto dei suoi protagonisti è eccezionale, l’individualismo è qualcosa di insopprimibile, spinto a tal punto che i commilitoni di Hector, quelli che, ovviamente, ci rimettono le penne, non sono degni neanche di essere nominati, di avere un nome. Quelli che ruotano intorno ai protagonisti, infatti, altro non sono che strumenti del destino per permettere ai primi di dare sfoggio di tutta la loro eccezionalità. E allora perchè dare loro un nome?

Ma forse Wilbur Smith ha sempre scritto così e non è stato lui a cambiare, ma io. Sono io quello che nei romanzi cerca altro, cerca la complessità, cerca la riflessione che non nega, necessariamente, l’azione e il divertimento, cerca dei personaggi che siano in grado di affascinarlo e, magari, incontrare per strada. Forse Wilbur Smith non è più in grado – o non lo è mai stato – di soddisfare un lettore fattosi più esigente e, se così fosse, il problema si trasferirebbe immediatamente dallo scrittore stesso ad un lettore non capace di scegliersi gli autori a lui più congeniali.

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Novità in libreria: Plotone Sette di Andy McNab

Plotone Sette

Di Andy McNab ho letto solamente il suo Nome in codice: Dark Winter, non traendone, tra l’altro, una impressione particolarmente positiva. Nonostante il suo voler essere un romanzo d’azione, come gran parte della produzione dello scrittore inglese ex S.A.S., quel lavoro difettava di due delle qualità a mio avviso più importanti per questo genere di letteratura: ritmo e velocità. Ora, però, McNab torna in libreria con un nuovo lavoro di saggistica che pare voler essere particolarmente interessante, Plotone Sette, dove riprende il filo del discorso iniziato con Pattuglia Bravo Two Zero e Azione immediata, nel tentativo di proseguire la narrazione delle esperienze reali, sue e dei commilitoni, che lo hanno visto come protagonista delle forze speciali d’oltremanica.

PLOTONE SETTE (Seven Troop)
di Andy McNab
ed. Longanesi

SINOSSI: Un nuovo memoir crudo e sconvolgente dell’autore di Il ragazzo soldato, Fuoco incrociato e Azione immediata. Un racconto che disegna la traiettoria di un destino fiero e tragico, quello che sembra accomunare gli uomini che hanno scelto di combattere contro un nemico per poi scoprire che spesso il vero nemico era la vita e che il fronte da assalire era rappresentato dalle loro stesse ossessioni. Andy McNab parte dal primo giorno, quello in cui, fresco di nomina, si era unito al suo nuovo battaglione nella giungla della Malesia, e arriva fino a quello in cui, dieci anni più tardi, riconsegna il berretto color sabbia per cominciare una nuova vita. Le cose che lui e gli altri uomini hanno visto, le cose che hanno fatto durante quel periodo hanno portato tutti loro a un punto di non ritorno. Per capirne le ragioni la memoria del protagonista torna al 1984 e ai due compagni che, dopo l’iniziale diffidenza e gli scherzi, l’avevano accolto: Nish e Frank. Il primo è un ragazzo di buona famiglia sempre un po’ sopra le righe, mentre l’altro è un soldato modello ma con una religiosità al limite del fanatismo. Insieme i tre affronteranno, dopo la Malesia, l’Oman e quindi l’Irlanda del Nord, per contrastare l’Ira. Ma le difficoltà della vita militare, la drammatica morte di alcuni compagni, lo schiacciante senso di colpa per il pensiero di non aver fatto tutto il possibile spingeranno prima Frank e poi Nish a lasciare il plotone, per rimanere soli con i loro fantasmi.

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Novità in libreria: L’esecutore di Lars Kepler

L’esecutore

Dopo il successo de L’ipnotista torna la coppia di scrittori svedesi uniti nello pseudonimo di Lars Kepler con L’esecutore, secondo capitolo con Joona Linna come protagonista. Chi di voi alla lettura della parola “svedesi” non sta già scorrendo il blogroll di Pegasus Descending in certa di più confortanti lidi, potrà leggersi qui sotto la trama del romanzo oppure, per i più pigroni, guardarsi il booktrailer. Tutti gli altri, invece, si contengano dal maledire la memoria del povero Stieg Larsson, alla fine mica è (solo) colpa sua se su di là nei freddi e lunghi inverni scandinavi tutti si sono messi in testa di pagarsi il mutuo scrivendo romanzi thriller. Ma il titolo originale di questo romanzo, poi, sarà “Paganini non ripete?”. Se c’è qualcuno che conosce lo svedese, please, batta un colpo.

L’ESECUTORE (Paganinikontraktet)
di Lars Kepler
ed. Longanesi
Traduzione di Alessandro Bassini, Monica Corbetta e Barbara Fagnoni

TRAMA: Si chiama Joona Linna ed è di origini finlandesi, ma da anni ormai Stoccolma è la sua casa. È stato in ogni vicolo, viale e piazza. Ma Joona Linna non è mai stato in quell’appartamento elegante e lussuoso da cui proviene quella musica struggente e rarefatta, un brano di violino suonato da un esecutore impareggiabile. Joona Linna non è mai stato nel salottino dell’appartamento: è l’unica stanza totalmente spoglia, priva di arredamento, senza soprammobili, insolitamente vuota. A parte il corpo. L’uomo è come sospeso a pochi centimetri dal pavimento e sembra ondeggiare nell’aria seguendo il placido suono del violino, mescolato al ronzio indolente delle mosche. Aveva ragione il collega che l’ha chiamato sulla scena del delitto: c’è qualcosa di inspiegabile. Il cadavere sembra fluttuare nel nulla. Omicidio o suicidio? Da ispettore della squadra omicidi di Stoccolma, Joona Linna sa che le apparenze sono soltanto il velo ingannatore dietro cui si nascondono i crimini. E i crimini nascono da una cosa sola: i desideri. Quello che Joona Linna non sa è che anche i desideri più ambiziosi, anche i sogni più sfrenati possono realizzarsi. Quello che Joona Linna non sa è che la paura può trasformare qualunque sogno in un orribile incubo. Quello che  l’ispettore Joona Linna non sa è che dai nostri incubi peggiori non ci può sottrarre nemmeno la morte.

Di seguito il booktrailer de L’esecutore di Lars Kepler:

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L’attentatore – Patrick Robinson

L'attentatore

L’ATTENTATORE (Diamondhead)
di Patrick Robinson
ed. Longanesi
Traduzione di Paolo Valpolini

Una delle cose che più mi stuzzica la fantasia è immagine cosa succederebbe se Mack Bedford e Jack Reacher si incontrassero. Ovviamente stando dalla parte opposta della barricata, cosa, di per sé, già estremamente difficile a causa del loro essere buoni che più buoni non si può. Però sono due macchine da guerra e chissà che legnate ne verrebbero fuori se uno dei due sfidasse l’altro a braccio di ferro, in palio due pinte di birra chiara e una pentolata di salsiccia e fagioli borlotti. Diavolo, che gran storia sarebbe.

Vabbè, dopo aver elucubrato un poco torniamo a bomba sull’oggetto della recensione odierna. In L’attentatore, l’ultimo lavoro pubblicato in Italia dell’autore inglese Patrick Robinson, Mack Bedford, il suo eroe seriale ufficiale dei Navy SEAL americani, sta svolgendo una missione in Iraq. Sarebbe la solita solfa – spara, ammazza, copri, prendi a calci in culo – se i ribelli iracheni non avessero tirato fuori dal cappello una nuova arma rivoluzionarie e devastante: si chiama Diamonhead ed è un missile portatile anticarro, ma talmente anticarro che neanche i modernissimi mezzi ipertecnologici in dotazione all’esercito americano possono nulla contro questa minaccia. Bedford, nella missione di cui sopra, vede far fuori gran parte della squadra da lui comandata e lo sapete pure voi come sono questi militari made in USA. Insomma, gli girano le palle non poco e i propositi di vendetta sono conseguenti. Vendetta che non ci mette mica tanto a compiersi. I ribelli, infatti, mica dei pecorai buzzurri sperduti in mezzo al deserto, hanno iniziato a capire come gira il mondo della giurisprudenza internazionale e internazionalistica e, finiti i colpi da sparare addosso agli yankee, si arrendono. Ginevra e menate varie. Però, questa volta, non c’è un soldatino occhialuto con Carl Schmitt sotto il braccio, ma un’incazzata macchina da guerra di due metri come Mack Bedford che non vede l’ora di aprire nei loro culi abbronzati un secondo buco. E li fa secchi, tratatatatata.

Ma la stampa si mette a urlare e i capoccia che stanno con le chiappe al caldo a Washington non vedono tanto bene tutto questo clamore intorno alla loro missione neoidealista di esportazione della democrazia. Come si fa in tutte le famiglie per bene qui ci vuole un bel processo ma, soprattutto, una bella condanna per chi ha fatto secchi degli inermi cittadini di un Paese, più o meno, ora alleato. I grandi scenari e le grande strategie di politica internazionale, si sa, se ne fottono delle storie individuali. Quello che conta è il risultato finale e il contesto. E Bedford deve quindi rimetterci il posto. Per uno che non sa fare altro che il militare e non ha fatto altro che il militare, beh, questa è come tirargli un colpo al cervello. Ma Mack a casa ha una famiglia e un figlio gravemente malato a cui solo una costosissima operazione in Svizzera può salvare la vita, una moglie a cui stanno cedendo i nervi e una comunità che rischia di rimanere sul lastrico a causa della crisi dell’industria navale militare su cui aveva fatto affidamento da decenni. Se poi la cosa è pure collegata a un futuro presidente francese e alla sua industria di armi da cui le malelingue indicano provenire i missili che hanno fatto fuori i suoi commilitoni, perché mai non unire l’utile al dilettevole e passare, per una volta almeno, dall’altra parte, da quella in cui, solitamente, stanno i cattivi?

Patrick Robinson è un inglese, dicevamo, ma scrive e riempie i suoi romanzi di una retorica che farebbe impallidire un americano. È come quegli atei che, a un certo punto della loro vita, vedono la luce sulla via di Damasco e si convertono. E ci si ritrova tra i piedi un san Paolo o uno di quegli integralistoni bigotti secondo cui tutto è peccato, è peccato. Due palle. Metà L’attentatore, quindi, è dedicato al racconto, piuttosto noioso, di questo eroe ferito dal Paese a cui ha dedicato tutta la propria vita e bla bla bla, una sorta di introduzione di duecento e passa pagine. Decisamente troppe. Non accade niente e le palle si gonfiano proporzionalmente al nulla narrato. A tratti Robinson dà anche fondo a tutta la sua retorica d’accatto, arrivando addirittura a infastidire un lettore che definirei moderato quale sono io. Nella seconda parte, quando finalmente Mack prende il toro per le corna e la pianta lì con i suoi tormenti esistenziali di cui non può fregare di meno in un racconto del genere, la storia prende quota e diventa anche piacevole, nonostante siamo alle solite: Mack Bedford è un personaggio finto che più finto non si potrebbe. Nonostante gli sforzi di Robinson di renderlo umano e fragile, come tutti noi, il SEAL rimane il classico supermarine americano che ammazza tutti quelli che gli si parano davanti e fa cose che solo Thor potrebbe eguagliarlo. Insomma, Patrick Robinson pare voler scimmiottare in modo evidente un genere di letteratura ben preciso e di cui Lee Child – su Pegasus Descending potete leggere la recensione di Niente da perdere –  è forse uno dei migliori interpreti. Ma Bedford non ha la complessità di Reacher e Robinson non possiede la capacità di avvincere il lettore ad una storia come il suo mentore.

Il risultato è, in definitiva, un romanzo prolisso e a tratti fastidioso, con un personaggio principale che sembra il John Wayne dei bei vecchi tempi, quello in cui i cattivi, diobò, facevano i cattivi e si comportavano da cattivi, e i buoni facevano loro il culo. E va bene, per carità, si guarda Rambo con un affetto malcelato e commovente. Però anche questo genere di storia ha bisogno di uno che la sappia raccontare.

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Un colpo perfetto – Ian Rankin

Un colpo perfetto

UN COLPO PERFETTO (Doors Open)
di Ian Rankin
ed. Longanesi
Traduzione di Isabella Zani

Brutta razza i collezionisti. Sono dei piccoli maniaci fuori di testa, una schiera di psicopatici che sanno tutto e più di tutto dell’oggetto feticcio della loro mania. Spendono soldi a palate, girano il mondo in lungo e in largo alla ricerca di proprio quel pezzettino lì che non avevo nella mia collezione e spendono un patrimonio pur di averlo. Poi non se ne fanno niente, lo mettono insieme agli altri diecimila e via, si riparte con il prossimo pezzo introvabile, l’unico in grado di elevare la collezione al rango che si merita.

Mike Mackenzie e i suoi due amici, Allan Cruikshank e Robert Gissing, il primo grigio impiegato di banca e il secondo autorevole esperto d’arte e preside dell’Accademia di Belle Arti di Edimburgo, sono tre di quei tipi detti sopra. A dire il vero Mike, un ricco sfondato annoiato e baciato dal successo donatogli dalla vendita di un software all’avanguardia frutto del genio del suo socio in affari, solo da poco è stato introdotto ai piaceri dell’arte, ma la sua notevole capacità di spesa gli consente d’avere in casa già una delle collezioni personali più raffinate e costose dell’intera Scozia. Chi frequenta il mondo dell’arte però ben sa che nonostante la disponibilità di liquidi non tutto può essere comprato. L’arte è uno di quegli oggetti da collezione in cui il collezionista deve vedersela con le istituzioni pubbliche e con la diffusa percezione dell’oggetto artistico quale opera dell’ingegno umano e quindi necessariamente godibile da chiunque, mal prestandosi, quindi, ad essere esposta sopra il camino acceso di un ricco parruccone col culo foderato di banconote da cinquecento euro. Ovviamente, questo altro non è che il sentore comune dell’uomo della strada. La realtà, come sempre, sta invece di casa altrove.

La National Gallery di Edimburgo ha infatti gli scantinati pieni di opere di immenso valore, artistico e pecuniario. Un po’ come tutti i musei del mondo e noi, qui in Italia, dovremmo saperne qualcosa. Perché, allora, non liberare queste opere di cui la gente non può giovarsi per mere questioni legate alla mancanza di spazio? Bella idea, grande, pacche sulle spalle. Ok, ma come facciamo? Semplice: le freghiamo, rubiamo, gabbiamo, fottiamo. E va bhe, ma se ne accorgono poi. Ma va là: a parte il casino che c’è in quegli scantinati, noi giochiamo di anticipo sostituendoli con delle copie ben fatte da un allievo dell’Accademia che ci sa fare mica male in ‘ste cose.

Ma per fare i criminali, insomma, servono i criminali. E Chib Calloway, boss in decadenza di una Edimburgo sotterranea, sembra fare proprio al caso di questa piccola cricca stile Ocean’s Eleven con la pancetta. Ma Chib vuole la sua parte ed è impossibile rimanere fuori dal mare di cazzi in cui è coinvolto.

Salutato John Rebus, Ian Rankin è già al lavoro su un altro sbirro scozzese in grado di prendere le redini del suo illustre predecessore. Nell’attesa di leggere queste nuove storie, lo scrittore di Fife tiene caldi i suoni numerosi fan sparsi per il mondo con questo Un colpo perfetto, romanzo da “rapina perfetta” che, come tutte le rapine perfette, poi così perfetta non è. Nonostante il ritmo piuttosto compassato, Un colpo perfetto non lesina spunti di interesse, almeno dal punto di vista concettuale: su tutti il percorso nella malavita di tre persone normalissime, solo un po’ annoiate e con la convinzione di saperla più lunga di tutti gli altri e, quindi, di doverli erudire. Se Allan, il professor Gissing, Chib e i pochi altri personaggi del romanzo rimangono sostanzialmente statici e immutabili per tutto l’arco della storia, Mike Mackenzie subisce una profonda trasformazione perfettamente illustrata e descritta da Rankin che, nel prendere questo personaggio come proprio modellino di creta da manipolare, strizza l’occhio ad un noir solo superficialmente mascherato di giallo. Se, infatti, la rapina, la sua preparazione, pianificazione e il suo esito non sono pagine degne di particolare nota, Rankin si riscatta nella perfetta caratterizzazione e mutazione, nelle azioni e nei pensieri, proprio di Mackenzie, instillando nel lettore una sorta di morale alla Fedro secondo cui è meglio lasciare il crimine ai criminali. Altrimenti non si fanno altro che danni.

Interessante, anche, come dicevo all’inizio della recensione, la psicopatologia del collezionista, in particolare quello d’arte, con una fenomenologia che rasenta il feticismo ammantato di idiota volontà di possesso. Francamente, ho sempre pensato che chi ama realmente l’arte non voglia che questa sia racchiusa in un appartamento buio, celato agli occhi degli spettatori di tutto il mondo. Il Bello esiste per nobilitarci e per essere guardato. Altrimenti non esiste e tutto si risolve in un banale, magari ottimo, artigianato. Rankin, nonostante il ritmo lento e non sempre in grado di ghermire il lettore, tra le righe, scrive in modo egregio pure di questo.

E in una narrazione colpevolmente piatta solo nel finale, nelle ultime tre pagine e nell’ultima in particolare, c’è l’unico autentico cambio di ritmo in grado di far fare al lettore un sussulto sul proprio divano. Vietatissimo, quindi, leggere l’ultima pagina senza le trecento precedenti. Vi giochereste l’unico orgasmo, e sorriso, di Un colpo perfetto.

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Novità in libreria: Il marchio di Caino di Tom Knox

Il marchio di Caino

Dopo il successo de Il segreto della Genesi, Tom Knox torna in libreria con un nuovo salsicciotto che saltabella qua e là per la storia e il mondo nel tentativo di svelare misteri gelosamente celati e verità indicibili, pena il cambiamento del corso degli eventi. Insomma, ancora una volta siamo probabilmente di fronte a un figlio illegittimo di Dan Brown, o meglio, del successo e delle palate di milioni di dollari di Dan Brown. Un po’ d’azione, un po’ di mistero, un po’ di dietrologia da “non ci dicono tutto” e il romanzo è sfornato. Romanzo che, intendiamoci, alla fine può anche divertire e filare via, ma che non mi toglie dalla mente la constatazione di quanto viviamo in un mondo di pecoroni ed epigoni degli epigoni. O, più semplicemente, di uffici marketing con due palle così. A voi, beccatevi ‘sti pistolotto. E buona lettura.  

IL MARCHIO DI CAINO
di Tom Knox
ed. Longanesi

Traduzione di Stefano Mogni

Una colonia tedesca che ha visto le “prove generali” dell’Olocausto: in Namibia, negli anni dieci del ‘900, la popolazione degli Herero è stata deportata nel deserto e lì lasciata morire. Registi dell’orrenda operazione un certo Goering e il dottor Fischer, un genetista tedesco ossessionato dalle presunte differenze razziali, molto vicino a Hitler nell’ideazione della “soluzione finale”…

Un Paese del Sud della Francia dove ancora vivono alcuni discendenti dei Cagots, una società di paria considerati inferiori in quanto discendenti della stirpe maledetta nata dall’unione di Eva col diavolo…

Un patto segreto tra Pio XII e Hitler, in base al quale il papa avrebbe taciuto sull’Olocausto in cambio del silenzio dei nazisti sulla scoperta dell’esistenza effettiva di una razza superiore …

Un giovane avvocato londinese che ha ereditato una mappa misteriosa e un giornalista di cronaca nera devono capire qual è il filo rosso che lega questi elementi, mentre intorno a loro si moltiplicano barbari omicidi realizzati con metodi che ricordano quelli dell’Inquisizione.

Visto e considerato che internet è la nuova frontiera del marketing, è stato pure aperto un blog dedicato a Il marchio di Caino. Io ci ho buttato un occhio e, non so perchè, ma ha qualcosa di familiare, ma non capisco cosa…Mmm…

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