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Pulp, thriller, hard boiled, noir

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La scorciatoia – P.G. Sturges

La scorciatoia

LA SCORCIATOIA (The Shortcut Man)
di P.G. Sturges
ed. Revolver Libri BD
Traduzione di Fabrizio Fulio Bragoni

Donne, possibilmente belle e fatali, e noir hanno un unico sviluppo: cazzi amarissimi. Non fa eccezione La scorciatoia, romanzo d’esordio del californiamo P.G. Sturges, figlio dello sceneggiatore e regista Preston Sturges, il quale compare, anche se solo nominalmente e mediato dalle proprie opere, più volte nel libro.

Dick Henry è la più classica delle “scorciatoie” per morosi e furbetti del quartierino, il classico duro dal cazzotto facile a cui si ricorre per poche centinaia di dollari per risolvere un problema che non richiede niente di più grosso – niente, per intenderci, che abbia a che vedere con il Cogan di George V. Higgins, altra pasta, altra statura. Intervallando riscossioni a interventi stile paladino della vecchina della porta accanto, Dick se la spassa mica male con la bella ed enigmatica Lynette, una che spruzza sesso anche solo nel guardarti e, si sa, l’uomo mica è fatto di legno, al massimo ci si diventa, di legno. Questa quiete da routine modello hard boiled Anni ’50 si inceppa quando il ricco sfondato Artie Benjamin, uno che si è fatto da solo creando dal nulla un impero fondato sul porno, gli commissiona un compito facile facile: pedinare sua moglie, di Artie, e scoprire con chi se la fa quella zoccola di Judy. E, chissà perché, quella faccia lì di quel tipo là assomiglia maledettamente a qualcuno di sua conoscenza…

La scorciatoia, ennesima lettura della collana Revolver, è romanzo breve e rapido che scorre via, però, senza lasciare traccia. Sto scrivendo questa recensione dopo sole poche settimane dalla fine dell’ultima pagina e la trama, comunque esilissima e dal sapore del fritto misto che ti torna su per due giorni dopo che lo hai mangiato, la trama, dicevamo, è già andata e la sensazione che la lettura mi ha lasciato è quella di una velata noia e di un disperato tentativo di far ridere il lettore, tentativo, però, mal riuscito, come quegli imitatori di terza tacca che si impegnano disperatamente cercando di imitare Adriano Celentano, quello degli Anni ’70, alla festa del fungo trifolato.

L’avere una trama ampia e articolata o essenziale e, magari, anche banalotta, per la letteratura di genere non è un problema: nel primo caso si possono scrivere capolavori come Il potere del cane di Don Winslow o lasciarsi travolgere come in Sei pezzi da mille di James Ellroy; nel secondo si possono scrivere gemme spassosissime come gran parte della serie di Hap&Leonard di Joe Lansdale oppure pietanze insipide, come delle zucchine bollite, come questo di Sturges, dove non c’è mai un cambio di ritmo, i dialoghi, nonostante il paragone con Elmore Leonard (assurdo), ci sono perché devono esserci e del finale ti accorgi perché le pagine che ti rimangono in mano ancora da leggere sono poche, ma per nessun’altra ragione.

P.G. Sturges

Anche l’utilizzo dei flashback non sortisce il risultato sperato. Sturges usa in modo massiccio questo espediente narrativo, probabilmente per cercare di dare sostanza e complessità al proprio personaggio da one man show scolpendone il passato e motivando, in tale maniera, il perché è diventato quello che è. Volendo essere maligni, e recensendo bisogna un po’ esserlo, i flashbach paiono però essere più dei riempitivi, come l’allungare la birra con l’acqua, come faceva Mariolino del circolo Acli di Trontano. Il volume aumenta, ma diventa pisciazza. Il passato di Dick Henry, analogamente, poco aggiunge al presente del personaggio, anzi, rompe pure abbastanza le balle perché interrompe continuamente il ritmo narrativo proprio quando si comincia a sperare che qualcosa decolli, interesse del lettore nei confronti della storia raccontata compreso. Anche se non voglio rimanere incatenato in un modello preconfezionato che sulla scia di W.C. Heinz, George V. Higgins e, soprattutto, il mai troppo citato Elmore Leonard prevede che la storia prenda forma dai personaggi e solo da loro stessi, senza troppi artifici e senza, ogni due per tre, vedere l’autore del romanzo piombare pesantemente sulle caviglie del lettore come un Felipe Melo qualsiasi, è altrettanto vero che per utilizzare al meglio i back and forth ci vuole, forse, addirittura più maestria che nel primo caso, perché il rischio di annoiare o di raffazzonare un prodotto appena appena accettabile è altissimo, a differenza dell’insegnamento dei tre grandi di cui sopra dove, invece, o c’è un buon romanzo o non c’è nulla, solo carta buona per accendere il camino.

Il problema de La scorciatoia, all’opposto dei commenti letti in giro, è il suo essere un romanzo che non lascia il segno, non incanta, non accattiva, non rattrista, non sorprende, non affascina, non ammalia, non mi fa neanche incazzare. Lascia indifferenti, fatta eccezione per la solita copertina-capolavoro di Davide Furnò.

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Dietro le sbarre – Allan Guthrie

Dietro le sbarre

DIETRO LE SBARRE (Slammer)
di Allan Guthrie
ed. Revolver BD
Traduzione di Marco Piva Dittrich

Il miglior aggettivo per descrivere Dietro le sbarre dello scozzese Allan Guthrie è “claustrofobico”. Fin dalle prime pagine, infatti, si può percepire una insopprimibile sensazione di perdizione e tragedia, si sta lì fermi ad osservare la distruzione di un giovane, Nick Glass, e della sua famiglia, uno sprofondare senza fine nel Male e nel non ritorno.

Quando Nick viene assunto come guardia carceraria sembra una buona notizia per il poco più che adolescente brufoloso proveniente dalla provincia della Scozia e appena approdato nella grande e caotica Edimburgo con moglie e figlioletta al seguito. Ma come forse sarà capitato spesso anche a voi, se il non avere lavoro è indubbiamente un problema, a volte l’averlo è altrettanto tragico se questo, a fronte di uno stipendio, vi sottrae tutto ciò a cui tenete, se ciò che dovete dare in cambio è la vostra dignità, i vostri sogni di realizzazione, la vostra famiglia o quel flebile alito che prende il nome di felicità. Nick si trova in questa situazione, nella condizione dell’alpinista che non riesce a salire, a proseguire nella sua scalata, ma, ormai bloccato in parete, non riesce neanche a tornare indietro. Fare il secondino in un carcere significa essere quotidianamente a contatto con la feccia della nostra società, con ladri, truffatori e assassini. La legge, dietro le sbarre, non è mai quella scritta nei codici di procedura penale e le regole sono quelle spietate di un hobbesiano stato di natura e del suo proverbiale homo homini lupus.

Le cose, per Nick, precipitano definitivamente quando uno dei ras del ramo ergastolani, Cesare, “chiede” a Glass di diventare il suo galoppino, di portare in carcere la droga che verrà poi smerciata agli altri detenuti. Nick inizialmente resiste, ma una visita dello svitato Watt alla sua famiglia lo costringe a giungere a più miti consigli. Inizia così una autentica discesa all’inferno da parte di un ragazzo troppo piccolo per affrontare una vicenda così grande e troppo inadeguato alla vita per resistere tanto alle tentazioni quanto alle sfide che ogni giorno, ognuno di noi ma qualcuno un po’ di più, è costretto ad affrontare e vincere.

Come detto in apertura, Guthrie compone una storia senza pause e in grado di gettare il lettore dentro una bara, un po’ come quei film di bassa lega in cui il protagonista, e noi con lui, si ritrova sepolto vivo sotto due metri di terra. Pagina dopo pagina il re del tartan noir non lascia scampo al suo protagonista, quasi una vittima sacrificale che più si muove e più si stringe il cappio intorno al collo, nonché votata a una critica serrata di un mondo, anche sociale, in cui la legge è assente e quando c’è è troppo impegnata a mettersi le dita nel naso piuttosto che difendere l’ordine costituito e i suoi figli più deboli.

Guthrie compone una sinfonia che a ogni riga ha il sapore della tragedia imminente, tanto da stupire il lettore nel suo incedere per 250 pagine tale è la fragilità di Nick Glass che potrebbe inciampare a ogni passo, dando vita a una affresco sulla disperazione individuale in cui la solitudine è un nemico implacabile in grado di uccidere più di assassini ed ergastolani e in cui la parola speranza è stata sbianchettata anche dai vocabolari.

Allan Guthrie

Tra le due posizioni filosofiche e politiche che vedono la natura al centro della discussione, da una parte come ente alieno e tiranno, in Hobbes, e dall’altro come stato di perfezione perturbato dalla nostra ricerca di civiltà, in Rousseau, Guthrie sembra propendere verso la prima ipotesi, nonostante la sua riflessione complessiva concentri il proprio focus dell’attenzione su un marcato soggettivismo narrativo, quasi un ricorso smisurato a quello che potremmo chiamare “individualismo metodologico”, un modo di raccontare il mondo, il macro, narrando le vicende di una e una sola persona, il micro. È un po’ quello che da sempre fanno, tanto per capirci, scrittori come Philip Roth o Cormac McCarthy, anche se con accenti e sfaccettature diverse. Stilisticamente Guthrie si posiziona in questa tradizione, nonostante non ceda mai un metro a qualsivoglia afflato epico e riducendo il tutto, almeno nella prima parte di Dietro le sbarre, a un realismo marcato incentrato sul dialogo serrato di uno scrittore che non è mai onnisciente e che, all’opposto, sospende il proprio giudizio individuale e personale per limitarsi a raccontare una storia con tutte le sue idiosincrasie e la sua capacità di stupire, fino al suo finale deflagrante e spiazzante in cui la tragedia, finalmente, può celebrare il suo trionfo e il vuoto intorno a noi avere la meglio. Perché siamo sempre lì, in uno in quei casi in cui l’hai preso nel culo e se ti agiti lo fai solo godere di più.

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Sinfonia di piombo – Victor Gischler

Sinfonia di piombo

SINFONIA DI PIOMBO (Shotgun Opera)
di Victor Gischler
ed. Revolver BD
Traduzione di Marco Piva Dittrich

Da una parte Nikki Enders dall’altra Mike Foley. In mezzo Andrew Foley, nipote di Mike.

Tutto ebbe inizio nel 1965, quando Mike, insieme al fratello Dan, si guadagnava il meritato pane quotidiano smaltendo il lavoro sporco per la mafia italo-americana di New York, di solito facendo il culo a strisce a chi credeva che il business fosse governato dalle leggi del libero mercato. E se il liberismo era un’idea, le pallottole del Thompson fischiavano che era un piacere. Poi, una sera, l’incidente: Mike ammazza una bambina in un covo di spacciatori e va in crisi. Molla il fratello, il lavoro e se ne scappa in Oklahoma dove mette su un vigneto e inizia a produrre vino, dimenticandosi il passato e chi era.

Quarant’anni dopo Andrew, figlio di Dan, ha un problema. Come il padre prima di lui, ha preso il vizio di arrotondare facendo qualche lavoretto per la mafia. Un giorno, dopo un compito facile facile, vede qualcosa che non doveva vedere e per lui cominciano i cazzi amari. Qualcuno, dall’altra parte dell’oceano, decide che di guardoni in giro ce ne sono anche troppi e che Andrew e compari vanno semplicemente eliminati. Per portare a termine la cosa, nel vero senso della parola, la migliore sulla piazza è la bella e letale Nikki Enders, killer prezzolata e spietata.

Andrew, per salvarsi le chiappe, sarà costretto a contattare lo zio Mike, tirandolo fuori dalla formalina e dal cesso arso dal sole in cui si era rifugiato, richiamando il vecchio assassino al proprio passato mai passato realmente, al proprio destino a cui nessuno può sfuggire, alla propria essenza più intima e profonda.

Non poteva partire che con il botto – e che botto – la nuova collana Revolver diretta da Matteo Strukul per le edizioni BD. E cosa c’è di meglio di Victor Gischler, autentica incarnazione di tutto ciò che Strukul e soci hanno scritto nel loro manifesto per la nuova collana? Quando si parla di rapidità espositiva e narrativa, di fluidità, di personaggi sempre sopra le righe ma allo stesso tempo reali e di trame mai banali o scontate, beh, il nostro prof di letteratura della Louisiana è forse quanto di meglio è possibile attualmente reperire sul mercato librario tanto da insidiare – lo dico? L’ho detto – Sua Maestà Joe Lansdale, forse a causa dell’incrocio tra la curva leggermente discendente del texano e quella visibilmente ascendente di Gischler. Alla produzione letteraria di Gischler, inoltre, bisogna aggiungere ormai il suo imponente numero di sceneggiature di fumetti Marvel che sta sfornando come un pazzo, roba come The Punisher, Deadpool e gli X-Men.

Victor Gischler

Anche in questo Sinfonia di piombo l’adrenalina, il sangue e le pallottole scorrono a fiumi in una continua sarabanda di qua e di là per l’America, con personaggi che nascono per durare poche pagine prima di finire accoppati per morte violenta e altri, invece, in grado di dare una pacca sulla spalla del lettore. Ma considerare Gischler solo come un ottimo pulp writer sarebbe un errore, come il considerarlo un autore di un genere da formato economico con espositore ruotante fuori da ogni buon autogrill della rete autostradale, proprio di fianco al distributore automatico di preservativi, quelli messi di fianco ai cessi pubblici. Sinfonia di piombo, infatti, ha una struttura narrativa a prova di bomba che, comprendo, a causa della rapidità narrativa e dalle trovate pirotecniche del suo autore rischia spesso di passare inosservata come, tra l’altro, dovrebbe essere per ogni romanzo in grado di appassionarci e farci tremare le vene e i polsi.

Sviluppandosi su due filoni paralleli che a tratti diventano anche quattro per poi convergere, necessariamente, tutti in un stesso, caotico e violentissimo big bang, Gischler si dimostra capace di giostrarsi, nello stesso lavoro, con generi e stili diversi, attingendo tanto al fumetto quanto al cinema. Se, infatti, Nikki Enders è la classica bad girl già vista anche in altri lavori – si pensi alla Santa di Custerlina, alla Mila dello stesso Strukul o alla Nikita dell’omonima serie – che tanto strizza l’occhio alle narrazioni e ai personaggi delle nuvolette parlanti, il Mike Foley di Sinfonia di piombo, oltre a essere un personaggio straordinario per psicologia e comportamento, ricorda da vicino la decadenza di un capolavoro come Gli spietati di Clint Eastwood per quell’insopprimibile aurea di fine di un’epoca esemplificata proprio da quel vecchio Thompson ormai pezzo da museo. Gischler narra tutto ciò in una sintesi frutto di un profondo mimetismo tra Foley e i tempi, e la vita, di quest’uomo in cui gli acciacchi, il rimorso, il dubbio e una schiena dolente sono lo specchio di un decadentismo dei costumi e dello spirito qui ritratti in maniera perfetta e puntuale, scorrendo via in punta di penna sul filo affilato della nostra anima. Lo scontro tra Foley e Nikki, con tutti gli altri, caleidoscopici personaggi secondari di mezzo, diventa quindi lo scontro tra due epoche e tra due paste, due fogge così diverse quanto simili di assassini in cui le scelte individuali lasciano il tempo che trovano, a noi, schiavi sempiterni di un destino già scritto e di una natura tiranna.

Su Pegasus Descending potete anche leggere il prologo di Sinfonia di piombo i Victor Gischler!

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I fuochi del Nord: storie di donne

I fuochi del Nord

di Fabio e Jonathan Lotti

Butto un po’ giù a braccio dopo la lettura e un breve ripasso in qua e là. Quindi niente recensione completa. Storie di conflitti interni ed esterni. Storie di infelicità. Le donne a farla da padrone.

Intanto siamo a Rochester negli stati Uniti. Prima donna, ovvero ragazzetta,  Lucia Moberg, ovvero Luc, “una quindicenne magrolina, un metro e mezzo d’altezza”, capelli neri, smalto nero alle unghie in macchina con suo padre Oscar ucciso durante un tentativo di rapina. Senso di colpa, in conflitto con la madre Blair che tenta pure il suicidio (lascio ad altri lettori il compito di circoscriverla), due amichette importanti, le gemelle Gina e Kit sul dark (mi sembra), si vede imprigionata in una vita senza speranza con la madre da accudire. Storiella breve con Quinn, ragazzo della famiglia accanto, sogni, incubi, allucinazioni tratte dalla mitologia nordica che le avvolgono la mente (ricordi delle fiabe paterne). Una prova feroce che l’attende.

Seconda donna la poliziotta Greta Hurd, quarantotto anni, ciocche bianche tra capelli biondi, niente trucco a mascherare le rughe della fronte, borse sotto gli occhi, suo minuscolo ufficio al quarto piano di “uno scatolone di cemento”. Compagno di lavoro Moe Arslan, diminutivo di Muhammed, musulmano di origine turca, baffi folti e capelli neri e, soprattutto, sangue freddo. Ricordi: la morte del padre a Buffalo nel suo laboratorio di falegnameria, contrasto con la figlia Sandy che sta per sposarsi, divorziata, si sente svuotata dal male che ha visto. Elemento catalizzatore la violenza “quello che viveva nel suo mondo di poliziotta le era sanguinato dentro, un grumo nero che le aveva avvelenato il cuore. Aveva perso la capacità di provare affetto per chiunque, persino per la sua bambina…”. Punto di riferimento per Luc. Non è convinta dell’omicidio a scopo di rapina.

Terza donna Tanya Yasbeck, legata a Mason, un balordo violento, aspetta un bimbo, vive in una povera roulotte, spera che il suo uomo entri nella gang dei suoi amici, il Club dello Scheletro. Personaggio vivo, addirittura forse quello meglio riuscito, con i suoi dubbi, le sue incertezze, la violenza accettata dagli altri (la fa sentire al sicuro) e quella ormai radicata in lei. Una umanità che vorrebbe emergere ma che non può (vedi l’incontro con Luc). Personaggi forti anche gli altri componenti della banda come, per esempio, Paula Dread, rasata e tatuata ai lati del cranio, cicatrice rosa sul collo, puttana e lesbica, stracciona puzzolente.

Fabio e Jonathan Lotti

Storia interiore che si dipana piano piano, storia psicologica insieme a crudo realismo, seconda parte di movimento, ritmo più veloce, corse nella neve, prigionia, violenza. La ricerca del colpevole c’è, ricca pure di spunti, ricerche, domande, interrogatori (non manca neppure la solita videoregistrazione che aiuta), ma sembra affievolirsi di fronte alla coltre di angoscia nei rapporti, l’amore che svanisce, il senso della vita che pare perdersi e morire. Ma la luce della vita, testarda, resiste e continua.

Bel libro.

PS: solo gusto personale. Avrei preferito cinquanta pagine in meno della seconda parte. Spesso, mi riferisco in generale, la bellezza di un libro sta pure nel tirare giù il cancello al momento preciso. Se si tiene troppo aperto qualcosa se ne va. Gischler, per esempio, sa pure quando chiuderlo. Altri, no.

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Un Revolver da undici colpi

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Provate a stare zitti, a spegnere la televisione o la radio, a stare fermi, immobili, e a drizzare le orecchie. Forse potete sentirlo, sia che voi siate a casa sia che vi troviate in mezzo a una piazza. È un lento fluire, una sorta di su e giù, è come un mantice che si riempie e si svuota. Se, come me, avete studiato medicina o, da piccoli, incuriositi dallo stetoscopio del vostro pediatra gli avete chiesto di farci un giro, di provarlo, allora potete capire di cosa sto parlando. Quando i polmoni sono liberi dal catarro e appoggiate su una schiena quel particolare strumento medico sentite l’aria entrare e uscire, come una risacca, una marea che va e che viene. Se voi, ora, percepite questo rumore significa che vicino a voi c’è un vostro simile, un lettore che ha appreso dell’imminente esordio della nuova collana Revolver, diretta da Matteo Strukul, per BD editore.

Leggere i primi cinque titoli e, soprattutto, i nomi degli autori dell’esordio, è una reale boccata d’aria fresca dopo un’apnea durata non si capisce quanto tempo. Victor Gischler, Allan Guthrie, Antony Neil Smith, Derek Nikitas, Russel D. McLean. Quante volte, qui su Pegasus Descending, ci siamo lamentati che i nostri autori preferiti o, comunque, il meglio di un genere meticcio e fracassone che tanto amiamo, non venivano pubblicati in Italia, sbraitando al vento e ululando alla Luna? Ora, forse, potremo starcene in silenzio a leggere in santa pace e fregarcene dell’editoria che se ne fotte della qualità preferendo le pile di romanzi nei reparti ortofrutticoli dell’Esselunga.

I fuochi del Nord

Fin dal manifesto si capisce la pasta di Revolver e degli undici titoli all’anno che verranno pubblicati, uno al mese, la giusta misura per averli tutti, per non dire che a questo giro di stipendio non c’è nulla che mi piaccia: “Esiste una nuova genìa di autori che ha sviluppato un nuovo linguaggio del noir: meticcio, contaminato, bastardo. Svelano una letteratura diversa, che taglia i generi, abbatte gli steccati ed estrae dall’arte del narrare formule velenose e sanguinarie. Romanzi dark eppure sgargianti nei colori, trame agili come lame di coltello pronte a danzare sul confine sottile che corre fra romanzo, fumetto, sceneggiatura e storyboard. Qualità narrativa, profondità nel tratteggiare i caratteri dei personaggi, ritmo sincopato, azione adrenalinica e parossismo visivo, trame a orologeria. Sono storie che rappresentano la spina dorsale di una nuova grande letteratura popolare. I romanzi REVOLVER si guardano come film su carta. I romanzi REVOLVER si bevono come shake di noir, pulp, action, horror. I romanzi REVOLVER si vivono come esperienza di lettura nuova e spettacolare”.

E se la scrittura sarà un concentrato letterario di azione, adrenalina, sparatorie e inseguimenti a fare da supporto meccanico al racconto di storie anche forti della realtà che ci circonda (sul sito della nuova collana, revolverlibri.it, andatevi a leggere le trame de I fuochi del Nord di Nikitas e di Dietro le sbarre di Guthrie), i libri stessi, intesi come oggetti, saranno dei piccoli capolavori da collezione grazie alle strepitose copertine di Davide Furnò, già cover artist di Scalped, la serie scritta da Jason Aaron e già autore di Punishermax.

Ma cosa sarà Revolver? “Un’etichetta editoriale capace di intercettare le nuove energie di un genere-non genere che, in anni recenti, ha deciso di mescolare in un tacchino ripieno le mille scintille di una fantasia policroma fatta di noir, pulp, crime fiction, thriller, western, splatter, narrativa alta.” dice Matteo Strukul. “E tutto questo insieme. Non solo, aggiungete i deliri multicolori della sceneggiatura da fumetto, il ritmo incalzante e le coreografie iperviolente e impazzite degli action-movie, la rabbia irriverente di una serie televisiva come, che ne so, Sons of Anarchy: avrete Revolver”. Ma il curatore della nuova etichetta vuole anche sottolineare il lavoro sulla lingua narrativa: “Nei libri Revolver troverete un nuovo linguaggio del noir: meticcio, contaminato, bastardo; una letteratura diversa, che taglia i generi, abbatte gli steccati ed estrae dall’arte del narrare formule velenose e sanguinarie. Scoprirete qualità narrativa, profondità nel tratteggiare i personaggi, ritmo sincopato, azione adrenalinica e parossismo visivo, trame a orologeria. Ecco, quelle dei romanzi Revolver sono storie che rappresentano la spina dorsale di una nuova grande letteratura popolare”.

Dietro le sbarre

Che il progetto Revolver, però, sia ben più che una mera, nuova etichetta editoriale buttata lì tanto per racimolare – si spera…- due soldi e colmare un vuoto nel mercato librario italiano, bensì un autentico progetto culturale capace di dare nuovo slancio alla lettura in sé e, perché no, attrarre i giovani ora renitenti verso questo straordinario modo di coltivare il proprio cervello e la propria fantasia , lo dice in maniera chiara e senza alcun indugio ancora Matteo Strukul: ”Credo che leggere debba essere una grande emozione e un’esperienza che travalichi le barriere della mente. Quando ho letto capolavori come Il mio nome era Dora Suarez di Derek Raymond o 1974 di David Peace, o ancora Il potere del cane di Don Winslow, be’ quello che mi ha colpito è stato sentire i protagonisti respirare, sanguinare, soffrire, piangere. Erano vicino a me, il loro dolore era il mio. Quando ho letto Victor Gischler, per la prima volta, mi sono ritrovato a ridere come un idiota da solo in tram e la gente mi guardava come un pazzo. Se prendete Allan Guthrie, scoprirete un oceano di dolore inimmaginabile e atmosfere così cupe che a volte sembrano insostenibili. Ecco,” conclude Strukul “l’esperienza di un romanzo Revolver è questa: un libro che va oltre la semplice lettura, un romanzo che non rinuncia a voler fare – e sottolineo – volere fare intrattenimento di grande qualità il puro piacere della lettura, quello che per tanto tempo ci siamo dimenticati”.

Revolver: Pegasus Descending c’è. Ora tocca a voi.

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