La scorciatoia – P.G. Sturges
LA SCORCIATOIA (The Shortcut Man)
di P.G. Sturges
ed. Revolver Libri BD
Traduzione di Fabrizio Fulio Bragoni
Donne, possibilmente belle e fatali, e noir hanno un unico sviluppo: cazzi amarissimi. Non fa eccezione La scorciatoia, romanzo d’esordio del californiamo P.G. Sturges, figlio dello sceneggiatore e regista Preston Sturges, il quale compare, anche se solo nominalmente e mediato dalle proprie opere, più volte nel libro.
Dick Henry è la più classica delle “scorciatoie” per morosi e furbetti del quartierino, il classico duro dal cazzotto facile a cui si ricorre per poche centinaia di dollari per risolvere un problema che non richiede niente di più grosso – niente, per intenderci, che abbia a che vedere con il Cogan di George V. Higgins, altra pasta, altra statura. Intervallando riscossioni a interventi stile paladino della vecchina della porta accanto, Dick se la spassa mica male con la bella ed enigmatica Lynette, una che spruzza sesso anche solo nel guardarti e, si sa, l’uomo mica è fatto di legno, al massimo ci si diventa, di legno. Questa quiete da routine modello hard boiled Anni ’50 si inceppa quando il ricco sfondato Artie Benjamin, uno che si è fatto da solo creando dal nulla un impero fondato sul porno, gli commissiona un compito facile facile: pedinare sua moglie, di Artie, e scoprire con chi se la fa quella zoccola di Judy. E, chissà perché, quella faccia lì di quel tipo là assomiglia maledettamente a qualcuno di sua conoscenza…
La scorciatoia, ennesima lettura della collana Revolver, è romanzo breve e rapido che scorre via, però, senza lasciare traccia. Sto scrivendo questa recensione dopo sole poche settimane dalla fine dell’ultima pagina e la trama, comunque esilissima e dal sapore del fritto misto che ti torna su per due giorni dopo che lo hai mangiato, la trama, dicevamo, è già andata e la sensazione che la lettura mi ha lasciato è quella di una velata noia e di un disperato tentativo di far ridere il lettore, tentativo, però, mal riuscito, come quegli imitatori di terza tacca che si impegnano disperatamente cercando di imitare Adriano Celentano, quello degli Anni ’70, alla festa del fungo trifolato.
L’avere una trama ampia e articolata o essenziale e, magari, anche banalotta, per la letteratura di genere non è un problema: nel primo caso si possono scrivere capolavori come Il potere del cane di Don Winslow o lasciarsi travolgere come in Sei pezzi da mille di James Ellroy; nel secondo si possono scrivere gemme spassosissime come gran parte della serie di Hap&Leonard di Joe Lansdale oppure pietanze insipide, come delle zucchine bollite, come questo di Sturges, dove non c’è mai un cambio di ritmo, i dialoghi, nonostante il paragone con Elmore Leonard (assurdo), ci sono perché devono esserci e del finale ti accorgi perché le pagine che ti rimangono in mano ancora da leggere sono poche, ma per nessun’altra ragione.
Anche l’utilizzo dei flashback non sortisce il risultato sperato. Sturges usa in modo massiccio questo espediente narrativo, probabilmente per cercare di dare sostanza e complessità al proprio personaggio da one man show scolpendone il passato e motivando, in tale maniera, il perché è diventato quello che è. Volendo essere maligni, e recensendo bisogna un po’ esserlo, i flashbach paiono però essere più dei riempitivi, come l’allungare la birra con l’acqua, come faceva Mariolino del circolo Acli di Trontano. Il volume aumenta, ma diventa pisciazza. Il passato di Dick Henry, analogamente, poco aggiunge al presente del personaggio, anzi, rompe pure abbastanza le balle perché interrompe continuamente il ritmo narrativo proprio quando si comincia a sperare che qualcosa decolli, interesse del lettore nei confronti della storia raccontata compreso. Anche se non voglio rimanere incatenato in un modello preconfezionato che sulla scia di W.C. Heinz, George V. Higgins e, soprattutto, il mai troppo citato Elmore Leonard prevede che la storia prenda forma dai personaggi e solo da loro stessi, senza troppi artifici e senza, ogni due per tre, vedere l’autore del romanzo piombare pesantemente sulle caviglie del lettore come un Felipe Melo qualsiasi, è altrettanto vero che per utilizzare al meglio i back and forth ci vuole, forse, addirittura più maestria che nel primo caso, perché il rischio di annoiare o di raffazzonare un prodotto appena appena accettabile è altissimo, a differenza dell’insegnamento dei tre grandi di cui sopra dove, invece, o c’è un buon romanzo o non c’è nulla, solo carta buona per accendere il camino.
Il problema de La scorciatoia, all’opposto dei commenti letti in giro, è il suo essere un romanzo che non lascia il segno, non incanta, non accattiva, non rattrista, non sorprende, non affascina, non ammalia, non mi fa neanche incazzare. Lascia indifferenti, fatta eccezione per la solita copertina-capolavoro di Davide Furnò.
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