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Il commissario Soneri e la mano di Dio

Il commissario Soneri e la mano di Dio


IL COMMISSARIO SONERI E LA MANO DI DIO
di Valerio Varesi
ed. Frassinelli

“Il commissario Soneri e la mano di Dio” è un romanzo ideale da leggersi in questo periodo di neve, cielo plumbeo e freddo estremo, la medesima ambientazione che fa da sfondo all’ultima avventura del commissario Soneri firmata da Valerio Varesi.

Un cadavere ritrovato sotto un ponte del fiume Parma costringe il poliziotto amante della buona cucina e dei sigari toscani ad abbandonare la propria città per risalire il fiume sino a monte, fino a dove tutto ha origine. Se eravamo abituati ad un Soneri immerso nelle nebbie padane, nella brumosa atmosfera della Bassa presa a prestito dalle magnifiche pagine di un emiliano doc quale fu Giovannino Guareschi, in quest’ultimo romanzo la vicenda si svolge interamente tra le montagne del vicino Appennino emiliano, in un piccolo paesino, Monteripa, in via d’abbandono e stritolato dal freddo e dall’isolamento causato dalla sua localizzazione. Il misterioso omicidio si riallaccia inoltre al ritrovamento di un furgone abbandonato e con i segni di cinque colpi di fucile sulla fiancata, aprendo un varco su un mondo dimenticato fatto di meschinità, cose non dette, cattiverie e cocaina. Fiumi di cocaina.

Il romanzo possiede una doppia chiave di lettura: da una parte la componente prettamente gialla che si dipana inseguendo le indagini e i ragionamenti del commissario Soneri. Dall’altra l’ultimo romanzo di Varesi vorrebbe anche essere uno spunto di riflessione su un mondo e una società, quella montana, spesso scarsamente conosciuti da chi vive in città anche se alla fine, come spesso accade, tutto il mondo è paese e anche in queste zone, forse a volte un po’ idealizzate, la meschinità dell’essere umano non sembra volersi placare. Se l’intreccio giallo è assolutamente convincente e capace di mantenere alti l’attenzione e la curiosità fino al termine della lettura, i ragionamenti simil-filosofici del commissario e i dialoghi con i personaggi principali del racconto appaiono come il reale tallone d’Achille di questo libro.

Chi vi scrive ha vissuto gran parte della sua vita in montagna, scontrandosi anche con i molti difetti che vengono ben evidenziati da Varesi, che però eccede nel caricaturismo e nel manicheismo, utilizzando una tavolozza di colori in cui rimangono solo il bianco e il nero a differenza, ad esempio, del regista Giorgio Diritti che nel suo “Il vento fa il suo giro” racconta in maniera sublime la mentalità chiusa che sovente sfocia in autentica cattiveria di chi è portato a pensare che il mondo non vada oltre la propria vallata per poi perdersi in un cronico lamento contro il proprio mondo e le proprie montagne, viste mai come una risorsa e sempre come un problema, un ostacolo.

Chi in montagna non ha mai vissuto tende troppo spesso a credere che questo sia un luogo ameno fatto di uccellini, cerbiatti che vengono a mangiarti in giardino e un caldo camino acceso davanti al quale stare comodamente seduti con un gatto sulle ginocchia a leggere un buon libro, lontani dalle rotture di coglioni del mondo. Oppure, per dirla come scrive Varesi: “Mettersi qui in tre stanze con l’unica preoccupazione di accendere il camino alla sera. E dimenticare tutto facendosi dimenticare”. E ancora: “Arriva un momento in cui vorresti fermarti e pensare […] Ho la nausea a forza di vedere cadaveri, cattiveria, ignoranza… Combatto da troppi anni e non è cambiato niente. Ho voglia di arrendermi e chiamarmi fuori. Mi piacerebbe scoprire se c’è un’altra via possibile oltre questa oscena e sanguinosa rissa. E poi vorrei andarmene da solo, prima che sia il mondo a spingermi fuori come un relitto. Sono le ultime chiamate“. [pg. 196-197]. Ovviamente uno che parla così non può poi che sorprendersi e sbigottirsi nello scoprire che anche la montagna, il luogo in cui egli sembra volersi ritirare chiamandosi fuori, è popolato da ignoranti e arraffatori, che se nella grande città ci sono i grandi industriali che tutto hanno in mano, dalla politica all’opinione pubblica beota, in montagna ci sono i padroncini, i geometri, quelli che vincono sempre e che possiedono la metà di tutto.

Il pensiero di Varesi è, ovviamente, del tutto lecito, così come è sempre permesso, per chiunque, immaginare un mondo ideale in cui tutto è decorato e profumato da rose e viole. Però non è condivisibile, almeno da parte mia. La montagna dovrebbe una volta per tutte smetterla di essere un posto “eccezionale”, o pensato come tale, per diventare un luogo come un altro in cui vivere, a maggior ragione se uno ha la ventura di nascerci. Non sono così tonto da non sapere che alcuni problemi e alcune diversità non potranno mai essere superati, che vivere a Macugnaga non è come vivere a Milano o a Varese. Però contesto chi, venendo da Milano o Varese, si mette lì a pontificare contro questo e quello, contro lo sviluppo di qualsivoglia economia montana nel tentativo di cristallizzare queste zone per avvicinarle alle proprie idee cittadine, al proprio idealismo da Pianura Padana. Perché chi vive in montagna deve continuare ad avere una commissione internet a 56k? A non poter mai andare a vedere un film al cinema o a teatro, a dover emigrare per un cazzo di lavoro, a non avere una biblioteca e a trovare come unico svago un bicchiere di vino al bar più vicino? È possibile combinare il rispetto dell’ambiente e dei paesaggi allo sviluppo economico? [Per chi fosse interessato consiglio il libro “La sfida dei territori nella green economy” a cura di Enrico Borghi (ed. Il Mulino)].

Varesi sembra pensarla diversamente e cade nella maschera da Commedia dell’Arte, ma mettendo in scena personaggi che vorrebbero essere reali e non geniali caricature quali Arlecchino e Pantalone. E quindi chi si oppone alle piste di sci è un filosofo da Magna Grecia che ci fa due palle così con i suoi discorsi da filosofo da Magna Grecia, mentre chi vorrebbe, seppur vivendo in montagna, una “vita normale” è un buzzurro ignorante e rozzo come un caprone.

Per questi motivi il romanzo mi ha a tratti irritato, a tratti annoiato con discorsi new age che ho sovente trovato un po’ banali e stantii, una sequela di luoghi comuni sulla montagna e la gente di montagna di difficile accettazione.

Alla fine rimane insoluta, ed è forse giusto che sia così, la domanda su chi più ami veramente la montagna: chi la pensa come una cartolina buona per farci una foto o passarci un week end per poi ficcarsi nel centro commerciale più vicino alla propria casa nel varesotto, oppure chi vorrebbe che i suoi abitanti continuassero a viverci facendo sì che la montagna stessa sia anche un posto in cui abitarci oltre che in cui soggiornare?

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