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Pulp, thriller, hard boiled, noir

“L’isola dei pirati”: il saluto di Crichton

L'isola dei pirati


L’ISOLA DEI PIRATI
di Michael Crichton
ed. Garzanti
Traduzione di Gianni Pannofino

“Nel dicembre 1663 una gallese chiamato Henry Morgan navigò cinquecento miglia nel Mar dei Caraibi per sferrare uno spettacolare attacco a un avamposto spagnolo, Gran Grenada, a nord del Lago de Nicaragua. Lo scopo della spedizione era semplice: trovare e rubare l’oro spagnolo, o qualsiasi altra proprietà mobile. Quando Morgan e i suoi uomini arrivarono a Gran Grenada, come riferì in un dispaccio a Londra il governatore della Giamaica, “tirarono una cannonata, capovolsero diciotto cannoni … si impadronirono della casa del sergente maggiore dove erano custodite tutte le armi e le munizioni, imprigionarono nella grande chiesa 300 tra gli uomini migliori … razziarono per 16 ore, rilasciarono i prigionieri, affondarono tutte le navi e poi se ne andarono”. Fu l’inizio di una delle più straordinarie imprese di rapina del diciassettesimo secolo.” [pg. 17]

Così scrive lo storico Niall Ferguson all’inizio del primo capitolo del suo “Impero. Come la Gran Bretagna ha fatto il mondo moderno” (ed. Mondadori), parole che potrebbero essere tranquillamente copiate e incollate nella quarta di copertina dell’ultimo libro del compianto Michael Crichton, “L’isola dei pirati”, scritto in contemporanea alla stesura del precedente “Next” e ritrovato tra i file del suo computer dopo la morte dello scrittore stesso.

Sono fermamente convinto che sia stata proprio questa avventura reale del corsaro – non chiamateli pirati, per carità, si incazzano come delle bisce altrimenti! – Henry Morgan a fare da canovaccio per questo libro così diverso dalla precedente opera di Crichton, quasi un ritorno alle origini, a quel tempo magnificamente narrato nel suo “Viaggi” quando si pagava la frequenza alla facoltà di medicina scrivendo in pochi giorni romanzo gialli, di fantascienza o d’avventura. Le analogie tra le scorribande di Morgan e quelle del capitano Hunter, protagonista de “L’isola dei pirati”, sono infatti molteplici.

In primo luogo l’anno e quindi, in senso più ampio, il contesto storico. Morgan segna questo spettacolare colpo a favore della Corona inglese nel 1663, mentre il romanzo è ambientato solo due anni dopo, nel 1665. È un periodo in cui la Gran Bretagna non è ancora quella che siamo abituati a pensare, uno dei più straordinari imperi della Storia, bensì un’isola schiacciata tra il Baltico, l’Oceano Atlantico e il Mare del Nord afflitta dai problemi interni, dai sommovimenti che di lì a pochi anni porteranno alla “Gloriosa Rivoluzione” (1688), dall’aperta rivalità della cattolicissima Spagna, ancora col pepe in culo a causa della perdita dell’Invincibile Armata, che poi, evidentemente, così invincibile non era. Ma sono questi gli anni in cui questa stessa piccoli isola e i suoi lungimiranti regnanti, a partire dalla compianta Elisabetta I, iniziano a gettare le basi per la costruzione del futuro regno marittimo capace di dominare gran parte delle terre emerse del globo e la totalità dei suoi mari. E quali sono queste basi? I corsari, i pendagli da forca come Morgan, il parassitismo. Scrive ancora Ferguson: “Non bisognerebbe mai dimenticare che l’Impero britannico è cominciato così: in un vortice marino di ladrocinio e violenza. Non è stato concepito da imperialisti consapevoli di essere tali, decisi a stabilire il dominio britannico in terre straniere, o da colonizzatori che speravano di costruire una nuova vita al di là del mare. Morgan e i suoi compagni “bucanieri” erano ladri, che volevano impadronirsi delle ricchezze di un impero altrui.” E queste ricchezze appartengono alla Spagna, ad un impero che in questi anni sembra invincibile e immutabile, così come le carovane marittime fatte da galeoni pieni di merce e oro che dalle Americhe navigano fino ai porti spagnoli paiono essere delle grosse vacche indifese da mungere o macellare. Da questo contesto nasce l’impero britannico, come scrive anche Herfried Munkler nel suo “Imperi. Il dominio del mondo dall’antica Roma agli Stati Uniti” (ed. Il Mulino), da queste carovane del mare a cui gli inglesi costringono gli spagnoli e impedendo a questi ultimi si sviluppare quell’imprenditoria privata, quel libero commercio (le varie Compagnie delle Indie) che invece saranno una caratteristica dell’Impero britannico. Poche spese, pochi rischi per la Corona, molti guadagni.

E allora Gran Grenada è l’impresa – una delle imprese – di Morgan, mentre Matanceros (i macellatori) è quella del romanzo e del già citato capitano Hunter: stessi avamposti inespugnabili, stesso divario di forze in campo, stesso saccheggio e bottino inimmaginabile, con gli spagnoli sempre a fare la figura dei fessi a confronto con l’astuzia inglese.

Il romanzo di Crichton è un esempio preciso, perfettamente combaciante, di quello che noi tutti intendiamo per “romanzo d’avventura”. Non c’è, qui, alcun risvolto intellettualistico o moralistico, non c’è la volontà di parlare della Storia di cui abbiamo accennato sopra, per quanto questa faccia costantemente da sfondo alle vicende narrate e al divertimento del lettore, unica preoccupazione dello scrittore. Crichton abbandona le sue infinite e accurate ricerche sulla scienza contemporanea, le sue frontiere e i suoi limiti più o meno valicati per gettarci, invece, in una storia di corsari, cannonate, battaglie navali e arrembaggi che più classica non si può, pagando un tributo importante ad autori che popolano il nostro fervido immaginario formatosi dalle letture dell’infanzia e della prima gioventù: devo forse citarvi Salgari o Stevenson o Conrad, per il corpo di mille balene!

Non troverete grosse innovazioni in questo libro, non troverete cose mai lette o novità assolute e forse non leggerete neanche il capolavoro di Crichton che sono certo avrebbe lavorato ancora molto su questo testo se il tempo tiranno glielo avesse concesso. Troviamo infatti dei personaggi che sono un po’ troppo abbozzati, superficiali, e vicende che meriterebbero più parole scorrere invece via in mezzo foglio. Credo che questo libro, nella sua stesura definitiva, avrebbe avuto almeno 150-200 pagine in più. Ma il destino ha voluto così. E allora l’ho preso, l’ho letto e mi sono divertito un mondo, senza troppo cercare la menata da intellettuale o la critica a questo sistema economico o a quel determinato comportamento. Cazzo se ne frega, non è questo il luogo e il tempo.

Perché da bambino mi divertivo un mondo con queste storie, la fantasia volava di qua e di là, così come Salgari mai si mosse dalla sua casetta tra la nebbia. Ero piccolo e stavo bene. Grazie Michael. E ciao.

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2 pensieri su ““L’isola dei pirati”: il saluto di Crichton

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