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Pulp, thriller, hard boiled, noir

I vampiri di Ciudad Juarez – Clanash Farjeon

I vampiri di Ciudad Juarez

I VAMPIRI DI CIUDAD JUAREZ (The Vampires of Ciudad Juarez)
di Clanash Farjeon
ed. Gargoyle
Traduzione di Chiara Vatteroni

Non bastavano i narcotrafficanti a funestare il Messico, ci volevano pure i vampiri. E per non farci mancare proprio niente addirittura dei vampiri narcotrafficanti. Alè.

I protagonisti de I vampiri di Ciudad Juarez, opera firmata dall’attore inglese Clanash Farjeon, anagramma impronunciabile di Alan John Scarfe, non sono quindi dei pallidi benestanti di inizio Ottocento costantemente impegnati a fuggire dai raggi dei Sole e dagli effluvi dell’aglio, in cerca di virginali colli in cui conficcare gli acuminati canini, bensì degli spacciatori pieni di soldi e belli abbronzati come si conviene in terra messicana. E non hanno neanche il nobile atteggiamento dei loro antenati vittoriani, preferendo ostentare una ricchezza volgare e pacchiana e, visto che chi ha troppi soldi, a un certo punto, non sa più cosa desiderare e come cazzo impiegare il troppo tempo a disposizione, pensano bene di conferire al romanzo una pennellata che più che horror definirei splatter composta da sevizie varie su giovani e inconsapevoli donne. Insomma, qualcosa di già visto in film che hanno inondato i cinema e le videoteche – Hostel su tutti – o di romanzi di un po’ tutte le fattezze, dal mainstream all’amatorialità.

Nel 1997 il giornalista inglese Michael Davenport è in preda a un incipiente raffreddore e, visto che a lui il freddo non piace proprio, riesce a farsi spedire nel Sud degli Stati Uniti, zona Los Angeles, per cercare di buttare giù un pezzo decente per la rivista per cui lavora. A El Paso, mentre aspetta il pullman che lo porterà nella metropoli americana, la sua attenzione viene attirata da una rarissima tigre bianca in libertà nell’arida zona che lo circonda. Oltre ad essere un irrecuperabile ipocondriaco, Michael è pure un grande appassionato di felini e di climi desertici. Una tigre nel deserto è quindi quanto di più insolito e gustoso un tipo come lui possa aspettarsi. Inforca la telecamera e insegue l’animale. Così facendo, però, oltrepassa il confine che divide il Messico dagli Stati Uniti, ritrovandosi in quel buco di culo polveroso che è Ciudad Juarez, dove il felino viene fatto salire su una grossa limousine bianca. Michael filma tutto, compresa la mano del proprietario della lussuosa automobile. Iniziano così i cazzi molto amari del giornalista inglese. El Tigre, il nome del felino, appartiene infatti ad Amado Portillo Perez, boss incontrastato di tutto il nord del Messico che, in teoria, dovrebbe essere morto da qualche ora in una clinica privata mentre cercava di cambiarsi i connotati mediante un intervento chirurgico di plastica facciale e corporea. Evidentemente qualcosa non torna: o il tipo è risorto come qualcuno di ben più celebre duemila anni fa oppure il cadavere in via di tumulazione non è il suo.

Michael mangerà due burritos troppo piccanti, si sentirà male, verrà derubato di documenti e telecamera e arriverà faccia a faccia con il già citato Amado e la sua allegra famigliola. Se rivuole indietro il suo materiale, Michael dovrà fare un piacere al narcotrafficante, facendogli da spalla durante una delicata trattativa con dei colleghi boss russi.

La critica ha definito questo lavoro di Farjeon – non riuscirò mai a ricordarmi questo fottuto anagramma, non c’è niente da fare – un horror sociale. Sull’intreccio splatter viene infatti imbastito un discreto affresco di quello che è il Messico oggi, anche se opere come Il potere del cane di Don Winslow, tanto per rimanere all’interno dei campi della narrativa, sono state in grado di essere molto più chiarificatrici, maggiormente complesse e piacevoli alla lettura. La trama de I vampiri di Ciudad Juarez, infatti, risulta troppo esile a fronte di un numero eccessivo di pagine. Quando le due cose si combinano – trama scarna e tante pagine – il risultato può essere solo uno: una insopportabile prolissità. Se nella prima parte la storia, ancora ancora, scorre ed è capace di incuriosire il lettore, nella seconda metà la scrittura dell’autore inglese diventa inguaribilmente pesante e con degli infiniti giri di parole e inutili descrizioni – ad esempio quella del concorso di bellezza – che rendono la lettura decisamente ostica e a tratti notevolmente noiosa.

Clanash Farjeon

Inoltre dobbiamo metterci d’accordo in merito a cosa andiamo a definire con le parole “umorismo” o “humour”. Un protagonista che ogni due per tre spara fuori una pseudobattuta che dovrebbe farci sbellicare o alleggerire la tensione e la suspense che non riescono, comunque, mai a salire a livelli degni di nota? Oppure il tentativo da parte dell’autore di mettere in scena un contrasto evidente tra il protagonista spensierato e cazzone con la vicenda in cui, nolente, quest’ultimo viene poi a trovarsi? Per me l’umorismo sono le infinite battute e freddure di personaggi letterari quali Hap&Leonard, i figli degenerati di Joe R. Lansdale, la cui vena comica e lieve traspare naturale ad ogni pagina, mai forzata  e artificiale come, invece, ne I vampiri di Ciudad Juarez. Michael Davenport, all’opposto, risulta un compendio di affettazione, un personaggio la cui lievità è talmente artificiale e tirata per i capelli da risultare pesantissima, a tratti intollerabile e irritante.

I vampiri di Ciudad Juarez ha quindi quale scopo conclamato la denuncia dell’estrema povertà in cui versa il Messico, dallo strapotere del narcotraffico alla figlioputtanaggine di tutti i potenti della Terra, nessuno escluso. Quest’ultimo aspetto non è certamente una novità, ma mille modi più efficaci e degni di nota sono stati escogitati dalla letteratura per narrare questa porzione di spazzatura dell’animo umano.

Questo lavoro di Clanash Farjeon è il primo capitolo di una trilogia cui seguiranno The vampires of 9/11 – e ti pareva – e The vampires of the Holy Spirit, trittico in cui la cricca di sadici vampiri che governa il mondo avrà modo di continuare a perseguire i suoi sordidi fini.

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